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Libia, tra bombardamenti americani e assenza italiana

by Eugenio Palazzini
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MisurataRoma, 24 gen – “Fuori i fascisti e i colonialisti italiani dalla Libia”. I volantini che circolano a Misurata in questi giorni riecheggiano la retorica del primo Gheddafi e suonano minacciosi. L’influenza italiana in Libia sembra essere ai minimi storici, l’apprezzamento nei nostri confronti, che nonostante decenni di propaganda contraria restava immutato nel popolo libico, anche all’indomani della caduta del rais quando l’Eni veniva ancora chiamato a mediare tra gli svariati gruppi in lotta per il potere, pare un lontano ricordo. Oggi la Libia è un’ex nazione africana, divisa in tre macroaree controllate da opposti nuovi padroni, più varie sacche contese, zone pullulanti di jihadisti, terre di nessuno. L’Italia ha scelto di schierarsi con la Tripolitana, o meglio con Fayez al Serraj, il primo ministro di Tripoli imposto in particolare da Washington e detestato dall’uomo forte di Bengasi che controlla gran parte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar già pedina statunitense e oggi stretto alleato di Russia, Francia ed Egitto. Ma il problema di fondo è che in Libia nessuno o quasi apprezza Serraj, non solo Haftar, anche a Tripoli i potenti clan locali hanno già tentato di deporlo due volte con la forza.

In pratica l’Italia, per seguire dettami atlantici che rimandano agli anni settanta, sta perdendo la residua capacità di determinare il futuro scenario libico. Non è una novità, come sottolineava Paolo Mauri pochi giorni fa su questo giornale, siamo all’ennesima sconfitta diplomatica, militare ed economica. Soltanto che adesso abbiamo perso la presa anche nei confronti dei flussi di immigrati, che Haftar minaccia neanche tanto velatamente di far giungere sulle nostre coste. E mai come adesso, a prescindere dagli appartenenti all’Isis, rischiamo di ritrovarci sbarchi ostili. Il 21 gennaio un’autobomba è esplosa a pochi passi dall’ambasciata italiana a Tripoli, provocando la morte dei due attentatori presumibilmente appartenenti allo Stato islamico. L’obiettivo non si sa con certezza se fosse proprio la nostra sede diplomatica o l’altrettanto vicina ambasciata egiziana (considerato che l’Egitto fornisce armi al generale Haftar, nemico anche dell’Isis). Sta di fatto che l’attentato è arrivato all’indomani della distruzione di campi di addestramento jihadisti in Cirenaica, provocata da droni americani partiti dalla base siciliana di Sigonella.

In sordina quindi il governo italiano non sta soltanto impiegando 300 soldati sul terreno, impegnati in una missione sanitaria per curare i feriti delle milizie libiche che a Misurata appoggiano il governo Serraj. Ha pure messo a disposizione una base per far bombardare il territorio libico nelle zone dove si annidano i jihadisti, senza però aver concordato ufficialmente il tutto con il governo di Bengasi ma unicamente su richiesta di Washington. Nessuna decisione autonoma o in accordo con i governi locali quindi, stiamo intraprendendo un intervento indiretto per procura che può sì dare i suoi frutti in termini di lotta al terrorismo ma che rischia, così come attuato, di mettere a repentaglio l’Eni, aumentare la probabilità di attacchi terroristici in casa nostra e dilapidare la seppur residuale capacità di influire sulla politica libica. Scalzata da Russia, Francia ed Egitto da una parte, messa in secondo piano dagli Stati Uniti dall’altra, l’Italia mai come oggi è invisa e impotente sulla quarta sponda.

Eugenio Palazzini

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1 commento

Luca 27 Gennaio 2017 - 11:06

Stanno curando i terroristi moderati tanto amati dai nazipiddini e klintoniani

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