Addis Abeba, 2 feb – Con quasi 110 milioni di abitanti, l’Etiopia è la seconda nazione più popolosa dell’Africa (dietro la Nigeria) e sorprendentemente è anche una delle nazioni che sta crescendo più velocemente in termini economici. Basti pensare che nell’ultimo decennio la crescita media del Pil è stata superiore al 10% annuo, e le stime aggiornate prevedono una crescita per il biennio 2019-2020 vicina al 9% all’anno. Pur con il 25% della popolazione ancora sotto la soglia di povertà, l’economia etiope ha conosciuto un vero e proprio boom stimolato dalla forte crescita dei consumi interni, un recupero del settore agricolo, ed una costante crescita dell’industria manifatturiera. Le ragioni di questo piccolo miracolo economico sono molteplici ed hanno origini lontane.
Sicuramente la posizione geografica dell’Etiopia è stata importante in quanto strategicamente dal Corno d’Africa è possibile accedere facilmente ai ricchi mercati del Medio Oriente e dell’Europa. Allo stesso modo è innegabile che la rete di strade e infrastrutture costruite dagli italiani tra il 1936 e il 1941, successivamente restaurata ed ampliata a partire dagli anni ’60, abbia fornito la possibilità di trasportare merci a basso costo in tutto il paese, dando un vantaggio competitivo notevole rispetto agli altri paesi dell’africa subsahariana.
Ma probabilmente il singolo fattore più rilevante nel recente sviluppo di questa nazione è da ricercare nella particolare natura delle relazioni bilaterali con la Cina. Prima della caduta del regime marxista di Menghistu, avvenuta nel 1991, i rapporti tra Cina ed Etiopia erano praticamente inesistenti, solo con la fine della devastante guerra civile, che portò tra le altre cose alla indipendenza dell’Eritrea, si è assistito ad un progressivo avvicinamento tra i due paesi. Un paese così grande e così martoriato da un sanguinoso conflitto aveva assoluta necessità di ricostruirsi dalle fondamenta, presentando inoltre un mercato potenziale per beni e servizi cinesi di oltre 100 milioni di consumatori, un’occasione che il governo di Pechino non poteva lasciarsi scappare.
Il meccanismo usato dai cinesi è stato molto semplice, offrire all’Etiopia (ed a molte altre nazioni africane) prestiti a lunghissimo termine e tecnologia in cambio dell’uso esclusivo di imprese appaltatrici cinesi. E così alcuni tra i più colossali progetti del continente, come la diga sul fiume Tezeke, la più grande in tutta l’Africa, oltre il 70% della rete stradale, tutta l’infrastruttura per le telecomunicazioni a livello nazionale, la rete ferroviaria ed anche la prima metropolitana dell’area sub sahariana, sono stati interamente finanziati e costruiti dai cinesi.
Inoltre, assecondando la volontà dell’Etiopia di diventare il più grande polo manifatturiero del continente africano, il presidente Abiy Ahmed supportato da un nutrito gruppo di imprese governative cinesi, ha dato il via alla costruzione di una serie di parchi industriali dal costo complessivo stimato di 3 miliardi di dollari, che potendo sfruttare un costo del lavoro bassissimo, permetteranno alla Cina di delocalizzare e di invadere il mercato locale con prodotti cinesi prodotti direttamente sul posto. Si stima che il totale degli investimenti cinesi in Etiopia ammonti oggi a circa 25 miliardi di dollari.
Le relazioni tra Cina ed Etiopia non si fermano ai rapporti commerciali, ma sono ben salde anche a livello politico e militare. Il paese africano è stato uno dei primi ad opporsi alla proposta ONU di sanzioni alla Cina per la violazione dei diritti umani in Tibet, così come è notorio che la Cina sia il primo fornitore di armi e veicoli blindati dell’esercito etiope.
Come spesso succede in questa parte dell’Africa, l’intervento cinese non è quasi mai diretto e volto a influenzare il governo di un paese nel breve periodo, come è stato ad esempio per gli imperi coloniali occidentali, bensì è volto a mantenere un controllo sull’ economia sul paese, assicurandosi indubbi vantaggi commerciali ed un legame sempre più stretto ed indissolubile nel lungo periodo, a base di prestiti che non potranno essere rimborsati e impianti che necessitano la presenza costante di personale cinese.
Molti economisti, non solo africani, iniziano però a chiedersi se una dipendenza così stretta da una nazione straniera non sia un serio pericolo per lo sviluppo e l’autosufficienza di un paese nel lungo termine. Il rallentamento dell’economia cinese potrebbe portare nei prossimi anni, ad un radicale cambiamento della politica economica di Pechino, ed i timori di poter essere in qualche modo abbandonati ha spinto il governo etiope ad introdurre una serie di misure volte ad aprire il mercato interno anche ad altri investitori esteri.
Certo l’esempio dei paesi limitrofi non è molto incoraggiante per potenziali investitori stranieri. Non avendo uno sbocco sul mare, l’Etiopia fa passare attraverso l’importante porto di Djibouti il 95 % delle sue merci in entrata ed in uscita. Da sempre legata a filo doppio con la Cina, la piccola nazione di Djibouti ha avuto recentemente una disputa riguardante uno dei più importanti porti del continente, il Doraleh Container Port, con gli Emirati Arabi Uniti. Nel 2006 la DP World, un’impresa con base a Dubai, concludeva un importantissimo accordo per la costruzione e la gestione del porto di Doraleh per i successivi 30 anni, senonchè nel 2018 il governo di Djibouti ha di fatto preso con la forza il porto occupandolo militarmente, e successivamente lo ha nazionalizzato, assegnando la concessione relativa alla gestione del porto alla China Merchants Holding.
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Questo segnale forte dato dal governo africano ha ovviamente allarmato tutti gli investitori stranieri potenzialmente interessati ad operazioni in quell’area, in quanto ha fatto capire quanto sia estesa l’influenza cinese nel Corno d’Africa. La conseguenza più naturale è però un progressivo isolamento economico di Djibouti e questo dovrebbe servire come monito per tutti gli altri stati africani al fine di aumentare la propria indipendenza dalla Cina, ma d’altronde il fascino dei soldi cinesi a buon mercato è ancora troppo forte, meglio non pensare alle conseguenze per la stabilità di tutta la regione, se il flusso di soldi si dovesse un giorno interrompere.
Claudio Freschi