Poi uno strappo, un buco, un foro. Sa di sfregio, di rifiuto. È così che appaiono i tricolori nazionali, appesi ovunque a Budapest, sessanta anni dopo la rivolta di un popolo che non poteva accettare la schiavitù sotto il segno di una stella rossa, di una falce e di un martello. Quel simbolo straniero andava rimosso, lo stesso con cui dieci anni prima qualcuno provò a sporcare il tricolore italiano. Qualcuno che poi dieci anni dopo, ben prima di godersi una dorata pensione da Presidente della Repubblica, esprimeva tutto il suo entusiasmo per l’avanzata dei carri armati sovietici che repressero nel sangue il grido di libertà degli ungheresi. “In Ungheria l’Urss porta la pace”, scriveva il gendarme rampante dalle colonne dell’Unità. E invece no, l’Unione Sovietica portò solo il freddo della fame nel cuore imperiale della Mitteleuropa. Eppure fu proprio allora che il grido di libertà dei giovani ungheresi, pur spezzato, riuscì a rompere la coltre. Era il secondo risorgimento magiaro, un secolo dopo il primo del 1848 contro gli austriaci invasori. La giovane Europa nasceva a Roma e a Budapest, sotto gli stessi colori di una bandiera il cui rosso non doveva rappresentare altro che il sangue dei martiri caduti per l’indipendenza nazionale.
Eugenio Palazzini
1 commento
Forse il ragionamento romanocentrico non gira molto se consideriamo che Attila – l’invasore barbaro per antonomasia – è considerato dagli ungheresi uno dei padri fondatori della patria.