Budapest, 30 ott – Corvi neri svolazzano nervosi tra i platani e i castagni dell’Isola Margherita. Il primo vento ghiaccio del nord spazza le ultime foglie ocra dagli argini del bel Danubio oggi grigio. Malinconico, forse triste, comunque imponente, come i palazzi imperiali che combattono contro la decadenza lungo viale Andrassy. Fino in fondo, fino alla Piazza degli Eroi, dove Árpád, potente capo delle sette tribù magiare e fondatore della prima dinastia ungherese, veglia sul monumento al Milite Ignoto.
Poi uno strappo, un buco, un foro. Sa di sfregio, di rifiuto. È così che appaiono i tricolori nazionali, appesi ovunque a Budapest, sessanta anni dopo la rivolta di un popolo che non poteva accettare la schiavitù sotto il segno di una stella rossa, di una falce e di un martello. Quel simbolo straniero andava rimosso, lo stesso con cui dieci anni prima qualcuno provò a sporcare il tricolore italiano. Qualcuno che poi dieci anni dopo, ben prima di godersi una dorata pensione da Presidente della Repubblica, esprimeva tutto il suo entusiasmo per l’avanzata dei carri armati sovietici che repressero nel sangue il grido di libertà degli ungheresi. “In Ungheria l’Urss porta la pace”, scriveva il gendarme rampante dalle colonne dell’Unità. E invece no, l’Unione Sovietica portò solo il freddo della fame nel cuore imperiale della Mitteleuropa. Eppure fu proprio allora che il grido di libertà dei giovani ungheresi, pur spezzato, riuscì a rompere la coltre. Era il secondo risorgimento magiaro, un secolo dopo il primo del 1848 contro gli austriaci invasori. La giovane Europa nasceva a Roma e a Budapest, sotto gli stessi colori di una bandiera il cui rosso non doveva rappresentare altro che il sangue dei martiri caduti per l’indipendenza nazionale.
“In piedi, o magiaro, la patria chiama. È tempo: ora o mai. Schiavi saremo o liberi? Scegliete”. Così apre il “Nemzeti dal“, il Canto nazionale, scritto da Sándor Petofi. È il poema che ha ispirato la rivoluzione del 1848, un inno che esortava gli Ungheresi a riprendersi la sovranità perduta, dopo la dominazione prima ottomana e poi austriaca. Oggi l’Ungheria è la nazione dell’Ue con il più alto tasso di crescita, osteggiata da Bruxelles, minacciata a più riprese dai guru del liberismo internazionale dalle stesse colonne del Time che nel 1956 pubblicava una meravigliosa copertina con i “freedom fighters” rappresentanti l’alba della libertà. Una libertà che non può essere tale se subisce il ricatto di qualche burocrate armato di calcolatrici. È per questo che l’Ungeria cresce e ancora una volta traccia per prima un solco, quello della civiltà europea che resiste alla finanza nullificante. Ed è per questo che a Budapest non possono accettare i diktat dell’Unione Europea sull’immigrazione, perchè significherebbe voltare le spalle a chi ha dato il proprio sangue per questa terra.
Per capire l’esempio ungherese basterebbe oltrepassare le colline di Obuda, alla periferia di Budapest, e soffermarsi a guardare le rovine di Aquincum, fortezza romana lungo il limes danubiano. Qua l’imperatore Claudio ordinò al governatore della Pannonia di disporre una legione con un corpo scelto per dissuadere i barbari dalla tentazione di invadere l’Impero. Roma cadde quattro secoli dopo quando il limes danubiano crollò sotto i colpi delle armate di Attila. È il più grande insegnamento romano e ce lo ricorda ancora una volta l’Ungheria, 1600 anni dopo. Quando si cancellano i confini tracciati dai Padri, siamo destinati a finire come popolo e come civiltà. Oggi l’Ungheria sta tracciando un limes che dobbiamo difendere a qualunque costo, di nuovo, per i nostri Lari e per i nostri figli. Perché questa è Europa. E nonostante tutto, è ancora in piedi.
Eugenio Palazzini
1 commento
Forse il ragionamento romanocentrico non gira molto se consideriamo che Attila – l’invasore barbaro per antonomasia – è considerato dagli ungheresi uno dei padri fondatori della patria.