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La Russia è sotto attacco? Errori e strategie di Putin

by La Redazione
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Mosca, 22 ott – Due concetti decisivi possono identificare gli anni del putinismo russo. Il primo è che l’ideologia pan-russa del presidente si è combinata con un sapiente “neosocialismo reale”, talmente intelligente da lasciare la leadership spirituale a Kirill (Gundjaev), Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, nell’obiettivo, probabilmente riuscito di consacrare Mosca Terza Roma quale ultimo Impero “occidentale” cristiano moralmente in grado di salvare la civiltà, considerato definitivamente chiuso il grande ciclo europeo, a causa del nichilismo materialista e Gender. Il secondo è che, rispetto allo Stato etico fascista italiano con cui spesso vari accademici mettono in connessione il regno putiniano, il presidente russo, a differenza del Duce italiano, non ha voluto, saputo o potuto mobilitare ideologicamente dal basso le coscienze e i vari popoli eurasiatici; in questa direzione, si può individuare l’incoerenza politica di fondo del putinismo, ben individuata dagli avversari strategici. Si può anche avanzare l’idea che, sin quando alla direzione di punti strategici statali si sia trovato Sergej Borisovic Ivanov (Dicembre 2011), l’ideologia panrussa ha preso creativamente il sopravvento sulla capziosa diplomazia politica del Cremlino, con una positiva offensiva strategica, con la definitiva vittoria sul fronte ceceno e osseto che fu ben più importante e difficile di quello che si considera in Occidente e con la pacificazione ucraina sotto l’influenza di Mosca; viceversa, defilato Ivanov, ha prevalso una metodologia basata su una diplomazia non sempre illuminata, spinta spesso dalla presunzione tattica di potere giocare contemporaneamente su più tavoli con potenze come Usa, Cina, Israele.
La perdita, strategica per quanto momentanea, di Kiev e i continui attacchi in terra russa del Deep State liberal anglosassone e di MI6, come ha lasciato peraltro intuire il modo di procedere del ministro degli interni V. Kolokoltsev dopo la strage di Kerch, indicano invece che la linea politica del Cremlino è, negli anni più recenti, a quanto sembra, più reattiva che offensiva. Si culla, in sostanza, nella illusione, di poter offrire e giocare sui tavoli decisivi (americano, cinese, israeliano, come detto), nella speranza di poter conservare la stabilità interna. Come però indicano questi eventi fondamentali, ciò alla lunga non è possibile e lo stato di confusione che ora regna al Cremlino è indicato dalla immediata reazione putiniana rispetto alla strage. A differenza del passato, quando Putin indicava chiaramente in Londra (come noto il tradizionale avversario strategico dell’ideologia panrussa) il regista di certe operazioni di guerra ibrida antirussa e di stragi di civili russi, in questo caso, dopo la strage di Kerch, il presidente, dopo aver espresso il più sentito cordoglio alle famiglie delle vittime, si è limitato a precisare che le indagini andranno, senza sosta, avanti sin quando non sarà fatta chiarezza sul tragico accaduto. Ma che già sia chiaro, al Cremlino, a dove possa ricondurre la regia della tremenda strage traspare dalle dichiarazioni immediatamente successive di Putin, durante la sessione del Club Valdai, nelle quali, fedele ai copioni di una capziosa guerra asimettrica, denuncia come Isis ha sequestrato 700 euroamericani sulla riva occidentale dell’Eufrate e sembra volerne decapitare al ritmo di dieci al giorno.
A Mosca, dire Isis è come dire MI6 o Obama-Clinton.
Sorge così il dubbio: come mai il presidente russo non ha attaccato apertamente i nemici della Russia per la strage di Kerch? L’unica ipotesi che si può formulare è che, anche alla luce del probabile imminente scisma della Chiesa Ucraina Autocefala Ortodossa (per il quale il metropolita Hilarion di Volokolamsk, braccio destro di Kirill, ha parlato di nuovo di un attacco da guerra ibrida), la posizione interna del presidente finisce per essersi assai indebolita. Particolarmente dal lato di quel complesso “militare-industriale” che è da un lato insoddisfatto delle continue ritirate strategiche russe sui vari fronti, dall’altro scettico su ogni eventuale relazione strategica con la Cina e su eccessivi accomodamenti con il polo finanziario economico tedesco.
Inoltre, di recente, in varie trasmissioni radiofoniche e televisive, generali e analisti (come ad esempio L. Ivashov assai critico verso Putin) esprimono preoccupazione per quegli esperimenti condotti dagli americani in Alaska, in cui sin dai primi anni novanta si starebbe, a detta del generale, portando avanti il programma HAARP, High Frequency Active Auroral Research Program, cioè «programma di ricerca attiva aurorale con frequenza molto alta»: immense antenne a altissima frequenza sarebbero piantate nella foresta statunitense. Il fine principale sarebbe oggi il sabotaggio del progresso civile e sociale russo. Già la catena di incendi che colpì Mosca nell’estate di 8 anni fa mettendola in ginocchio veniva ricondotta dal complesso militare industriale a tale disegno. Tornado ad HAARP, tali antenne sarebbero la concreta testimonianza di un’arma «geofisica» non convenzionale americana, capace di condizionare il clima di continenti, alterando con microonde l’atmosfera o l’umidità del pianeta e modificando costantemente gli stati climatici terrestri.
La Russia, il suo territorio, sarebbero l’oggetto principale di attacco di HAARP. Già anni fa circa 100 parlamentari della Duma avevano firmato una lettera indirizzata all’ONU ed all’UE in cui si chiedeva la messa al bando di questi esperimenti elettromagnetici creati, secondo la loro visione, dal Dipartimento della Difesa statunitense. «Sotto il programma HAARP, gli USA stanno creando nuove armi geofisiche integrali, che possono influenzare gli elementi naturali con onde radio ad alta frequenza. Il significato di questo salto qualitativo è comparabile al passaggio dall’arma bianca alle armi da fuoco, o dalle armi convenzionali a quelle nucleari». Tale progetto, secondo Ivashov e altri generali di peso, non si sarebbe affatto fermato con Trump; anzi, il contrario. Di conseguenza, da più voci interne, dallo stesso “stato profondo” russo si finisce per accreditare l’immagine di una Russia sotto assedio e di un presidente debole, che deve ritrovare la linea politica di fondo ed il tempismo tattico precedenti al 2014, quando Putin operava insomma in tandem con Ivanov ed era più sensibile alla voce nazionalpopolare interna.
Francesco Rossini

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