Edimburgo, 19 set – Gli scozzesi hanno scelto. Con una maggioranza, pur non ampia, gli abitanti delle highlands e delle lowlands si sono espressi per rimanere nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Lo spoglio è proseguito durante tutta la notte, fino al mattino e i risultati non lasciano dubbi: a fronte di un’elevatissima affluenza (più di otto elettori su dieci si sono recati ai seggi, con lunghe file già dalle prime ore di apertura delle sezioni), 55% sono stati i “No”, 45% i “Sì”.
Un voto storico, anche se atipico visto che al referendum sono stati chiamati a partecipare tutti i residenti nel nord dell’isola, a partire dai 16 anni, mentre rimanevano esclusi gli scozzesi delle altre parti del regno. Ad una prima analisi geografica, le uniche città in cui il “Sì” ha vinto sono state Glasgow e Dundee. Rilevante il dato delle Shetland, le isole in cui si trova uno dei più grandi giacimenti petroliferi europei e che è stato fra gli oggetti del contenere durante la campagna elettorale, dove gli unionisti superano il 63% delle preferenze. Percentuali più vicine fra loro, ma sempre in vantaggio per il “No”, in tutte le altre circoscrizioni, ad eccezione del solo Lanarkshire settentrionale, circondario di Glasgow.
Nelle intenzioni dell’attuale primo ministro scozzese, Alex Salmond, il referendum doveva essere il primo atto di un percorso che avrebbe portato il nuovo Stato a divenire ufficialmente indipendente nel giro di pochi mesi, per la precisione il 23 marzo 2015. La lunga vicenda, che affonda le proprie radici nella vittoria dello Scottish National Party alle elezioni del 2011, si chiude invece qui. Laconico il commento a caldo di Nicola Sturgeon che, a spoglio ancora non ultimato, già riconosceva la sconfitta: «E’ una profonda delusione personale e politica», ha affermato la vice di Salmond, precisando comunque che lavorerà «in ogni verso» per assicurare più poteri alla Scozia.
La vittoria del fronte del “No” non significa, infatti, che da oggi gli scozzesi dovranno fare i conti con l’assimilazione a Londra. Tant’é vero che, nelle ultime settimane, il premier David Cameron insieme a Ed Miliband, segretario dei laburisti e Nick Clegg, leader dei liberaldemocratici, avevano garantito a Edimburgo una maggiore autonomia fiscale e più ampi poteri in materia di welfare. Importanti promesse di devoluzione da parte di tutte le forze della Camera dei comuni, senza considerare peraltro che la Scozia ha già titolarità in materia ecclesiastica e giuridica sin dall’atto di Unione del 1707, oltre ad eleggere dal 1999 un parlamento e un governo propri.
Non solo i rappresentanti di governo, ma anche la regina -solitamente distaccata e neutrale rispetto al dibatitto- si era mobilitata: «Spero che la gente penserà con molta attenzione al futuro», aveva detto Elisabetta II durante un incontro pubblico vicino alla tenuta reale di Balmoral, nell’Aberdeenshire. Una mossa che sembra aver fatto centro nell’elettorato scozzese, in particolare fra gli indecisi, e che permette a Londra di tirare un sospiro di sollievo.
Ad uscirne sconfitte, a questo punto, sono probabilmente le sole speranze di poter replicare il “modello Scozia” ad altre realtà. Paesi Baschi, Catalogna, Occitania e anche alcuni indipendentisti locali italiani guardavano con estremo interesse al referendum, nella convinzione che potesse rappresentare un precedente da importare. Nulla di fatto.