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La Turchia si riprende il proprio oro. In vista della fine del dollaro?

by La Redazione
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Roma, 21 apr – Dopo Venezuela, Austria e Germania ora è il turno della Turchia che ha annunciato di voler riportare in patria parte delle proprie riserve auree attualmente conservate alla Federal Reserve di New York. La Germania ha da poco concluso il rimpatrio di 300 tonnellate d’oro, avvenuto sotto una forte pressione politica ed un clima di generale sfiducia verso una FED apparentemente restia a restituire l’oro in tempi ragionevoli (fatto che ha alimentato una certa serie di teorie, tra il complottista ed il realistico, sul fatto che, forse, la FED non disponga più fisicamente di tutto l’oro di cui formalmente sarebbe custode). Nel frattempo prosegue la corsa all’accaparramento dell’oro da parte di Cina e Russia, di cui avevamo già parlato, che assorbono più dell’80% della produzione annuale da oramai due anni; non tanto come affermano i giornali economici mainstream “per proteggersi dall’inflazione”, quanto probabilmente per gettare le basi per un nuovo sistema di scambi gold exchange standard.
Erdogan stesso, durante un congresso per l’imprenditoria internazionale tenuto la scorsa settimana ad Istanbul, ha lasciato cadere una frase che ha il peso di guerra: “Perché siamo costretti a fare tutti i pagamenti in dollari? Perché non possiamo trovare un differente sistema, magari basato sull’oro?”. Parole che, seguite dalla decisione di riprendersi fisicamente parte delle proprie riserve, assumono un significato parecchio più profondo. Qualcosa sta accadendo nel mondo dell’oro e non è qualcosa che si possa spiegare con semplici categorie economiche: la velocità con cui l’oro venezuelano messo in vendita negli scorsi mesi (mossa necessaria a Caracas per continuare a pagare puntualmente gli interessi altissimi sui propri bond e per poter essere credibile nell’emetterne di nuovi) lascia intendere che in questo momento solo i paesi ridotti alla fame vendano oro e che chiunque possa stia cercando di acquistarne e, anzi, di riportare in casa il proprio.
La sensazione è che tra i vertici dei paesi che hanno ancora una classe dirigente proiettata al futuro (quindi non l’Italia) il possesso dell’oro fisico oggi sia una priorità; sia acquistandone nuovo che fisicamente riappropriandosi del proprio lasciato in deposito presso “alleati”. Perché correre a riprendere il proprio oro? Non è sufficiente vendere certificati di possesso ed evitare l’enorme fastidio logistico di organizzare trasporti da miliardi di dollari da New York a Berlino o Istanbul? Le ragioni possono essere tante: la paura di una guerra o una crisi ad esempio può essere una spiegazione. Durante un conflitto la titolarità ed il pezzo di carta valgono zero mentre vale solo l’oro che davvero si possiede… paradossalmente anche se non è il proprio. Anche la paura di un peggioramento dei rapporti con il governo USA è una spiegazione; non è facile discutere con Washington quando questi ha nei propri sotterranei la ricchezza altrui.
Tuttavia probabilmente quel che si sta preparando è la fine del dollaro come moneta di scambio internazionale; la possibilità che il dollaro smetta di essere la moneta del commercio mondiale (o meglio, possa venire affiancata da altri sistemi e monete) spinge i governi a riportarsi in casa il necessario per essere tutelati. Ad ora è presto per affermare con certezza cosa accadrà, incuriosisce solo l’immobilismo e il silenzio della nostra classe politica, che al solito neanche si pone il problema in merito alla sensatezza, ad oggi, nel 2018, di avere circa la metà del proprio oro depositato alla FED mentre mezzo mondo sta correndo a riprenderselo.
Guido Taietti

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