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Maltrattamenti e torture: la condizione dei giovani palestinesi nelle carceri israeliane

by Massimo Frassy
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childfatherTel Aviv, 24 ott – L’Esercito israeliano, per bocca del suo portavoce, ha annunciato che alcune procedure relative all’arresto e alla detenzione dei minori palestinesi, verranno riformate per venire incontro alle raccomandazioni che, nei mesi scorsi, l’UNICEF aveva rivolto alle autorità israeliane.

Nel rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite, venivano infatti denunciati “maltrattamenti diffusi, sistematici e istituzionalizzati“. Il Governo di Tel Aviv, al momento dell’uscita del rapporto, si era dichiarato disponibile a cooperare per assecondare alcune delle richieste presenti nel documento. A ben guardare però, dietro le dichiarazioni di facciata, appare oggi evidente come le autorità israeliane non abbiano alcuna intenzione di modificare il loro modus operandi.

Infatti, delle 38 raccomandazioni presenti nel rapporto, soltanto 3 sono state prese in considerazione.  Eppure, la situazione complessiva descritta dal documento, avrebbe richiesto ben altri interventi per rimediare ad una serie di pratiche in palese violazione delle più elementari norme del diritto internazionale e delle convenzioni sui diritti dei minori. Per capire di cosa si sta parlando e della dimensione del problema, è utile partire dai numeri: attualmente, secondo alcune ong che si occupano di fornire assistenza ai giovani detenuti palestinesi ed alle loro famiglie, nelle carceri israeliane sono rinchiusi circa 200 minori. Ogni anno sono 700 i ragazzi tra i 12 ed i 17 anni arrestati dall’Esercito israeliano. Nella maggioranza dei casi, sono accusati di lanciare sassi nei confronti di soldati che presidiano gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Un reato che può comportare fino a 6 mesi per chi ha dai 12 a 13 anni e fino a 10 anni per bambini dai 14 ai 15 anni.  In più occasioni i vertici dell’Esercito hanno cercato di giustificarsi accusando le organizzazioni armate palestinesi di ricorrere ai bambini per compiere le loro azioni, ma proprio il reato di cui sono generalmente imputati i ragazzi fermati, cioè il lancio di sassi, smentisce tali accuse, rendendo ancora più inaccettabili i brutali trattamenti cui sono sottoposti.

Negli oltre 400 casi documentati dall’UNICEF, quella che viene ricostruita, è una prassi costante e generalizzata, che non trova altra giustificazione se non nella volontà di umiliare e terrorizzare i ragazzi colpiti da questi provvedimenti. Gli arresti vengono di norma effettuati di notte, con l’irruzione dei militari israeliani nelle abitazioni dei sospetti, attraverso l’impiego di bombe assordanti e con il deliberato danneggiamento del mobilio.  I ragazzi vengono trascinati via bendati e legati per i polsi con legacci di plastica. Ai genitori non solo non viene permesso di accompagnarli, ma spesso non viene nemmeno comunicata la destinazione o il reato di cui sono accusati. Il viaggio verso i centri di detenzione può durare anche molte ore, durante le quali non viene permesso loro di recarsi al bagno o di usufruire di acqua e cibo.  Una volta giunti nei commissariati, i giovani palestinesi vengono sottoposti ad interrogatori senza l’assistenza di un legale e senza la presenza di un parente. Non vengono informati dei loro diritti, tra cui quello di non auto-accusarsi, e  per far loro confessare i reati di cui vengono incolpati, vengono di norma sottoposti a pressioni psicologiche e fisiche. Durante gli interrogatori restano legati alla sedia in posizioni scomode e dolorose anche per parecchie ore. Alla fine, costretti a confessare, firmano documenti redatti in ebraico, senza avere la minima idea di cosa vi sia scritto. É solo al momento dell’udienza nel Tribunale militare per minori che i giovani detenuti hanno il primo incontro con il loro avvocato.

Inoltre, essendo la documentazione del caso prodotta solo in lingua ebraica, appare evidente come sia difficile poter garantire agli imputati un processo equo. La custodia cautelare in questi casi può essere estesa fino a 188 giorni e non è previsto il rilascio su cauzione. Lo stesso periodo di detenzione, come denunciato dalle testimonianze di molti ragazzi, è accompagnato da violenze ed umiliazioni. Inoltre, la detenzione ha luogo in carceri situate sul territorio israeliano, che rendono estremamente difficoltose le visite dei genitori, a causa delle leggi che vietano ai palestinesi della Cisgiordania di viaggiare all’interno di Israele in assenza di appositi permessi, molto difficili da ottenere. A fronte di questi trattamenti crudeli e disumani,  e delle evidenti conseguenze sull’equilibrio psicologico di questi ragazzi, il Governo israeliano ha accettato solamente di interrompere gli arresti notturni, di ridurre il tempo di detenzione prima di vedere un giudice (24 ore per i bambini di 12-13 anni e due giorni per i bambini di 14-15 anni) e di separare le udienze dei bambini da quelle degli adulti. Ben poco rispetto a quanto denunciato dall’UNICEF.  Eppure, i nostrani campioni della difesa dei diritti umani, in primis il Ministro Emma Bonino, sempre così solerti nel lanciare campagne contro la discriminazione delle donne nei Paesi musulmani o contro la pratica dell’infibulazione, non sembrano interessati ad esercitare pressioni per porre fine a questo stato di cose.

Massimiliano Frassy

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