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Nancy Pelosi vola a Taiwan, ma l’azzardo Usa rischia di scatenare un’altra guerra

by Eugenio Palazzini
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Roma, 7 apr – Nancy Pelosi, speaker della Camera Usa, si recherà domenica 10 aprile a Taipei, capitale di Taiwan. E’ quanto riferito dai media giapponesi, tra cui la rete Fuji News Network, secondo cui Pelosi sarebbe “preoccupata” per un “cambiamento dello status quo con la forza” da parte della Cina proprio adesso che è in atto la guerra in Ucraina. Sono passati 25 anni dalla visita dell’ultimo speaker Usa a Taipei. Correva l’anno 1997 e allora fu Newt Gingrich a incontrare l’ex presidente di Taiwan, Lee Teng-Hui. Altri tempi, altri scenari globali e soprattutto altro peso della Cina. Per quanto adesso i media taiwanesi sottolineino che si tratta di una visita volutamente di basso profilo proprio per evitare dure reazioni di Pechino, è chiaro che il dragone asiatico non prenderà bene l’iniziativa di Washington. Il timore è quindi che la Casa Bianca stia forzando la mano ed esacerbando la tensione nel già esplosivo teatro Indo-Pacifico. Vediamo perché.

Nancy Pelosi a Taiwan: la data simbolica 

Nancy Pelosi, come detto, sarà a Taiwan il 10 aprile. Non è una data casuale, perché il 10 aprile 1979 il presidente statunitense Jimmy Carter firmò il celebre Taiwan Relations Act, normativa che stabilisce il sostegno degli Stati Uniti all’arcipelago rivendicato da Pechino. E’ utile precisare però che la legge in questione, adottata 43 anni fa, non garantisce un intervento militare americano nel caso in cui la Cina dovesse attaccare l’ex isola di Formosa. Sulla carta, neppure prevede il contrario, ovvero la rinuncia Usa a intervenire. Quello che invece è previsto è il supporto americano con specifici aiuti militari. Il documento afferma nello specifico che “gli Stati Uniti metteranno a disposizione di Taiwan mezzi di difesa nella quantità necessaria per consentire a Taiwan di mantenere sufficienti capacità di autodifesa”. E’ dunque chiaro che la visita di Nancy Pelosi suona come una dimostrazione del sostegno esplicito dell’amministrazione Joe Biden a Taiwan, almeno dal punto di vista strettamente politico.

L’immutabile compito e i cinque microfoni

La Cina non ha mai celato la sua volontà di potenza e la rivendicazione di Taiwan è storia vecchia. Stato insulare de facto, erroneamente confuso dai più come un’unica isola, l’anello sfuggito al dragone rosso è costituito in realtà da un gruppo di quattro isole: Formosa, Penghu, Kinmen e Matsu. La prima non è altro che la principale, la più grande e conosciuta. L’intero arcipelago è però la preda più ambita dalla Cina, come ribadito lo scorso anno durante la celebrazione del centenario del Partito Comunista. Fu allora che Xi Jinping pronunciò un discorso roboante, condito da parate e retorica vecchio stile mutuati dall’Urss.

Il presidente cinese apparentemente si limitò a ribadire la necessità di una “riunificazione”, ma alcuni attenti osservatori fecero notare che davanti a lui c’erano cinque microfoni. Un dettaglio quantomeno curioso perché in lingua cinese “cinque microfoni” è omofono di “riunificazione con la forza”. Casualità? Può darsi. Ma Xi Jinping fece pure presente che risolvere la questione Taiwan e centrare la riunificazione della nazione rappresentano “l’immutabile compito storico del Partito comunista cinese”. E “nessuno dovrebbe sottovalutare la determinazione implacabile, la ferma volontà e la forte capacità del popolo cinese di sostenere la sovranità nazionale e l’integrità territoriale”.

Ecco, nel bel mezzo di una guerra in Europa e con la Russia sempre più legata alla Cina, la mossa americana non fa altro che spingere Pechino a reazioni imprevedibili. Il dragone asiatico non è l’orso russo, nel senso che si è sempre mostrato più cauto, preferendo il soft power al forzare la mano con interventi militari. Ma tutto può sempre cambiare e se quella Usa non è una “provocazione” calcolata, poco ci manca.

Leggi anche La Cina non gioca a scacchi nel nostro speciale sulla guerra in Ucraina

Eugenio Palazzini

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