Tel Aviv, 10 ott – Nella “unica democrazia del Medio Oriente” vige lo ius sanguinis. La legislazione dello stato ebraico parla chiaro: chiunque sia nato in Israele da genitori israeliani è considerato un cittadino israeliano. La cittadinanza è poi estesa ai figli di genitori israeliani nati al di fuori dei confini della madre patria. Ma nessun altro quindi può stabilirsi in pianta stabile nella terra promessa? Non esattamente.
La legge del ritorno, in vigore dal 1950, garantisce la cittadinanza israeliana a tutte le persone di discendenza ebraica (in grado di dimostrarla con apposito certificato) che intendano trasferirsi a vivere in Israele. Dal 1970, per accrescere il numero della popolazione ebraica in Israele, la legge del ritorno è stata aggiornata ed estesa ai figli di almeno un genitore ebreo, al coniuge del figlio di un ebreo, al nipote di un ebreo, al coniuge del nipote di un ebreo. Non sfuggirà il fatto che la legge del ritorno (chiunque è di sangue ebraico può diventare israeliano, a prescindere dal territorio in cui sia nato) è esattamente il contrario dello ius soli (chiunque sia nato in un dato territorio acquista la cittadinanza in esso, a prescindere dal sangue).
Di fatto la legge del ritorno è stata uno dei fattori principali che ha portato alla crescita della popolazione ebraica in Israele a discapito della popolazione non ebraica preesistente. Attualmente il paese conta 7 milioni di abitanti di cui il 77% ebrei e solo il 18,5% arabi, seppure questi ultimi siano in crescita.
In molti casi Israele è stato infatti accusato di non garantire gli stessi diritti civili e sociali ai cittadini israeliani di religiose non ebraica.
La Corte Suprema di Israele ha stabilito nel 1999 che agli ebrei o discendenti di ebrei che praticano attivamente una religione diversa dall’ebraismo non è consentito ottenere la cittadinanza israeliana. Basandosi inoltre sui legami di sangue e di religione, la legge del ritorno non prevede la cittadinanza per gli arabi costretti alla fuga da Israele in seguito al conflitto arabo-israeliano del 1948-49.
Per la legge israeliana ogni cittadino ha delle forti responsabilità nei confronti del proprio paese. Una delle più rigide di queste normative prevede l’obbligo di svolgere il servizio militare per tre anni consecutivi, obbligo esteso anche alle donne per la durata di due anni. Tutti, anche i cittadini non ebrei, secondo una legge promulgata nel 2010, devono “giurare fedeltà allo Stato di Israele e alla religione ebraica”.
Ma gli oneri legati alla cittadinanza sono vincolanti anche al di fuori dei confini di Israele: un cittadino israeliano deve in ogni caso astenersi dall’aiutare quelle nazioni e quelle organizzazioni considerate nemiche di Israele. In caso contrario il ministero degli Interni può sancire la decadenza della cittadinanza ed è previsto un eventuale processo penale.
Anche vivere e lavorare in Israele senza aver ottenuto la cittadinanza israeliana non è semplice se non per studenti (periodi di pochi mesi) e per coloro che decidono di avviare un percorso di conversione alla religione ebraica. L’immigrazione è fortemente limitata considerando le cosiddette “barriere difensive”, veri e propri muri, che Israele ha costruito non soltanto per separare i propri confini dalla Cisgiordania ma anche per impedire l’ingresso di immigrati provenienti dall’Egitto. Il governo Netanyahu a partire dal 2010 ha dato inoltre vita ad un giro di vite per espellere i lavoratori irregolari (che si stimano intorno ai 200 mila).
Israele insomma non è la terra promessa dei sans-papiers né un Paese ideale per i paladini dello ius soli di casa nostra.
Eugenio Palazzini