
L’analisi del quotidiano statunitense punta l’attenzione sul pragmatismo nazionalista di Abe: va a Pearl Harbour con Obama, ma non chiede scusa. Firma lo storico accordo con la Corea per risarcire le schiave sessuali dell’esercito giapponese, ma si reca regolarmente allo Yasukuni, il santuario dove sono onorati 2,5 milioni di caduti in nome dell’imperatore, tra cui 14 condannati di “Classe A”, considerati tra gli ideatori e pianificatori dell’aggressione nipponica durante il secondo conflitto mondiale. In politica interna, Abe ha favorito le zone rurali, che nel sistema politico giapponese hanno un peso maggiore a quello delle aree cittadine. In una fase in cui il mondo intero è sprofondato in una crisi catastrofica, Tokyo ha saputo mantenere la solidità guadagnata dopo la sua, di crisi, e dal 1990 a oggi ha quasi raddoppiato il bilancio per la sicurezza sociale. Grazie alla sovranità monetaria, inoltre, il Giappone si può permettere cose come una manovra di stimoli fiscali all’economia del valore di 28mila miliardi di yen, circa 270 miliardi di dollari (lo ha fatto nei mesi scorsi).
Ma il governo del Sol Levante non è restato sordo all’imperativo dell’accoglienza: anche il Giappone ha preso i suoi rifugiati. Per la precisione 27 (ventisette) in tutto il 2015. “Quell’anno – chiosa il Nyt – solo l’1,5% della popolazione giapponese era nata all’estero, rispetto al 3,4% della Corea del Sud e del 13,3% degli Stati Uniti”. Insomma, “in Giappone non c’è stata una forte reazione contro la globalizzazione perché è riuscito a scongiurarne alcuni aspetti negativi”. Senza globalizzazione – o almeno senza i suoi lati peggiori – non avrai problemi con i contestatori della globalizzazione. Chiamiamola saggezza zen.
Adriano Scianca