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Da Ikea a Shell, le multinazionali in fuga da Mosca: altro che ragioni “umanitarie”

by Salvatore Recupero
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Roma, 6 mar – Nella guerra tra Russia e Ucraina molte multinazionali hanno scelto di schierarsi contro Mosca.  I big del business, con la scusa della solidarietà al popolo ucraino, stanno abbandonando la terra degli zar. L’elenco è lungo e ogni giorno si aggiunge sempre qualcuno a questa lista. Andiamo con ordine.

La fuga dei grandi marchi

Iniziamo dal mondo della moda.  Kering, il colosso francese del lusso guidato da François Pinault, (e che ha nel proprio portafoglio brand come Gucci, Balenciaga, Bottega Veneta) ha deciso di chiudere temporaneamente tutti suoi negozi in Russia “a causa delle crescenti preoccupazioni per la situazione in Europa”.

Il colosso francese non è il solo. Anche altri due big come Lvmh e Chanel hanno sospeso i propri affari in Russia. All’elenco si aggiunge anche il gruppo Inditex, che controlla tra gli altri Zara, che ha annunciato lo stop delle attività in Russia, con la chiusura dei suoi 502 negozi. Anche le case automobilistiche stanno chiudendo bottega. Si va dalla Toyota alla Volkswagen. Infine da segnalare anche la chiusura degli store della Lego e di Ikea.

Notizie come queste sembrerebbero poco importanti al fine di spiegare il conflitto in corso. In realtà non è così. Questa è una guerra che si sta combattendo anche sui social network. E le grandi marche non possono rimanere indifferenti al diffuso “sentiment” antirusso.

La Silicon Valley contro Mosca

A proposito di social network, i big tech della Silicon Valley hanno deciso di indossare l’elmetto. Cominciamo dalla Apple, che ha sospeso la vendita di tutti i suoi prodotti nel Paese. La nota della società parla chiaro: “Siamo profondamente preoccupati per l’invasione della Russia in Ucraina e stiamo con tutte le persone che stanno soffrendo a causa di questa violenza”. Per questo ha deciso di “bloccare la vendita di prodotti” sul territorio russo e ha limitato la disponibilità delle applicazioni dei media statali russi al di fuori del Paese.

Anche YouTube ha scelto di bloccare dalla piattaforma i canali dei media statali russi RT e Sputnik in vista della guerra in corso in Ucraina. Il gruppo Meta aveva già deciso di bloccare i contenuti di questi media vicini al Cremlino da Facebook e Instagram. Il ban riguarda sia la presenza degli emittenti su Internet sia le loro trasmissioni televisive.

I dipendenti di Google – tra cui un centinaio di origine ucraina – hanno firmato una lettera diretta al direttore esecutivo Sundar Pichai chiedendo la modifica di servizi come Google Maps e gli strumenti di pubblicità, per disturbare i militari russi. Su questo la compagnia non si è ancora pronunciata ma ha già vietato l’accesso alla pubblicità e distribuzioni ai media statali russi e ha aumentato le misure di sicurezza per l’accesso degli utenti in Ucraina.

Anche Microsoft si è aggiunta alla lista. Sul blog di Microsoft News, l’impresa si è pronunciata: “Tutti quelli che lavorano a Microsoft seguono da vicino la tragica, illegale e ingiustificata invasione di Ucraina. È diventata una guerra digitale, con immagini terribili da tutta l’Ucraina, così come attacchi cyber meno visibili e campagne di disinformazioni su internet”. La compagnia si è schierata a favore degli aiuti umanitari e la protezione della sicurezza informatica degli ucraini, condannando la propaganda statale del governo russo.

Insomma, la Silicon Valley si è schierata compatta contro Putin. Questa non è certo una novità. La guerra in Ucraina è solo una scusa per proseguire una battaglia che già dura da tempo. Biden sicuramente apprezza tutto questo zelo da parte di queste aziende americane.

Multinazionali in Russia e partnership interrotte

L’elenco delle aziende che abbandonano la Russia non risparmia i colossi del gas e del petrolio. La prima a fare i bagagli è stata la British Petroleum, gigante petrolifero britannico. Il più grande investitore straniero in Russia ha deciso di cedere la sua partecipazione del 20% in Rosneft, la compagnia petrolifera di stato russa.

Ventiquattro ore dopo è stata la Shell ha preso un’iniziativa simile. La multinazionale britannica- come riporta Il Sole 24 Ore-  ha comunicato la fine della partnership con Gazprom, gigante del gas russo controllata dallo stato, compreso l’impianto di gas naturale liquefatto Sakhalin-II e il suo coinvolgimento nel progetto del gasdotto Nord Stream 2, che la Germania ha già bloccato la scorsa settimana. I due progetti valgono circa 3 miliardi di dollari. Il motivo? “L’insensato atto di aggressione militare”.

Poi è stato il turno del Equinor, la più grande società energetica norvegese controllata dallo Stato, ha annunciato che inizierà a ritirarsi dalle sue joint venture in Russia, del valore di circa 1,2 miliardi di dollari.

Infine tocca anche Eni dare un taglio con Mosca. Si inizia dismettendo la quota del gruppo di San Donato Milanese nel gasdotto Blue Stream (che collega la Russia alla Turchia).

Analizzando questo lungo elenco non possiamo non sottolineare come le grandi aziende si siano unite ai “governi occidentali” nel tentativo di stringere d’assedio la Russia almeno dal punto di vista finanziario. Ci sbaglieremmo però se pensassimo che dietro ci sono ragioni umanitarie. Il ban commerciale nei confronti di Mosca nasce per preservare gli azionisti dal conflitto in corso e per soddisfare i desiderata dei “governi occidentali”. Si tratta di affari e politica (con la p minuscola). Le big, inoltre ci tengono alla loro immagine e la guerra non piace affatto ai propri clienti.

 Salvatore Recupero

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1 commento

Prof. Massimo Sconvolto 6 Marzo 2022 - 1:26

Quando presentano le trimestrali ci sarà da ridere, e non rideranno le multinazionali ma gli investitori che liquideranno le posizioni ora prima che i numeri vengano a galla 😀

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