Un rapido sguardo ai dati e si nota subito che moltissimi casi registrati, il 21.8%, sono relativi a episodi virtuali, verificatisi su internet. Seconda tipologia dei casi è l’opposizione nei confronti dell’hijab, il copricapo islamico (19.4%). Mentre le aggressioni contro le persone rappresentano appena il 5.3% degli eventi e, tra queste, sono considerate sia le aggressioni fisiche che quelle soltanto verbali. Un altro 5.3% riguarda atti di vandalismo contro le moschee, mentre interessante risulta il 4.4% che denuncia gli “articoli islamofobi” e l’altro 4.4% che consiste in manifesti e volantini anch’essi “islamofobi”. Islamofobo anche il 4.9% che si oppone alla costruzione o all’apertura di moschee o centri islamici. Soltanto una percentuale minima di questi episodi, tra il 10 ed il 18%, è stata denunciata ed è quindi verificabile in quanto reato. Quanto agli episodi denunciati come islamofobi, come abbiamo già accennato, non abbiamo a che fare con 278 casi di aggressioni contro le persone a causa della loro fede, come si potrebbe pensare a primo impatto. Anzi, facendo due calcoli, le aggressioni contro le persone in un anno sarebbero meno di 15, contando tra queste anche quelle soltanto verbali. Un po’ poco per lanciare l’allarme islamofobia.
Tra i casi registrati, peraltro, come abbiamo visto, anche articoli che legittimamente discutono le pericolosità dell’Islam, slogan contro i rifugiati, manifestazioni contro il terrorismo islamico e l’immigrazione (nel rapporto, ad esempio, al punto 45 si segnala un concentramento a Saragozza e, appunto, la parola d’ordine del corte: “No al terrorismo islamico”). Islamofobe anche le manifestazioni identitarie contro il multiculturalismo. Tra i casi di islamofobia presunta anche un articolo di giornale, «Ondata migratoria: rifugiati o invasori?», che snocciola pacificamente alcuni dati (molto simili, peraltro, a quelli di una recente inchiesta del Sunday Times) su poligamia, rapporto con gli infedeli, velo e sharia, evidenziando una maggioranza “conservatrice” tra i musulmani. Il rapporto in questione, quindi, sembra voler affermare un uso del termine islamofobia che si va imponendo anche nel Regno Unito e che tende ad inquadrare come tali anche una serie di cose che rientrano, invece, nella libera manifestazione del pensiero, confondendoli volutamente e mettendoli sullo stesso piano rispetto agli atti autenticamente offensivi, razzisti o violenti – che, dicevamo, sono fortunatamente molto pochi.
Un’operazione molto simile a quella portata avanti dalla lobby israeliana e che, ad esempio, è riuscita a rompere gli equilibri interni al Partito Laburista in Gran Bretagna. Una strategia che tende ad accostare e poi accomunare di proposito l’opposizione alle politiche israeliane con l’antisemitismo, in modo da rendere del tutto intoccabili alcuni temi che pure hanno poco a che fare col razzismo e molto con la storia e l’attualità. Ed è paradossale che la strategia relativa all’allarme islamofobia, non sia in fondo così differente da quella, parallela, portata avanti dalla lobby israeliana, spesso proprio contro esponenti della comunità mussulmana. Chi di spada ferisce, di spada perisce. E, sullo sfondo, una dittatura del pensiero progressista che livella e manipola ogni differenza per i suoi esclusivi interessi: il liberismo, il melting pot, l’annullamento di ogni identità o alternativa economico-politica.
Emmanuel Raffaele
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