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Tanti auguri a Popoli, la Onlus identitaria che non piace ai globalisti

by Alberto Palladino
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La prima missione del Dottor Maggi e del Dottor Turano, oggi veterani degli interventi di Popoli in terra Karen. I vestiti tradizionali sono stati donati in segno di riconoscenza dalla comunità del villaggio di Boe Whay Hta.

Roma, 27 feb – Quando si racconta della storia delle grandi organizzazioni umanitarie si fa un po’ fatica ad individuarne la nascita. Sono veramente rare le volte in cui infallibilmente se ne possa catturare la scintilla d’innesco, l’atto creativo, il gesto che guarnisce la volontà dell’azione. Si finisce quasi sempre persi in una nebulosa di “momenti storici”, necessità comunemente avvertite, moral issues e ci si ritrova tristemente insoddisfatti soprattutto se la domanda con cui eravamo partiti era: “Chi erano?”. Nel caso della Onlus Popoli, che oggi festeggia i suoi primi venti anni d’attività, la risposta è facile. “Quelli di Popoli” non erano nessuno. O meglio erano tutti un qualcosa, e tutti avevano una storia, ma tra loro non figuravano le solite nomenklature della haute société commossa, degli opinionisti delle grandi indignazioni da prima serata, né dei santi sinedri del monoteismo globalista. Se pensate che all’epoca non era neanche apparsa sulla terra la razza degli influencer, la nascita di Popoli assume i caratteri del vero miracolo.

La nascita della Onlus Popoli

Una delle prime missioni di Popoli: sulla destra un giovanissimo Nerdah Mya, figlio del leader dell'Esercito di Liberazione Nazionale Karen. Al centro il Dr. Bawah, "colonna" della resistenza Karen e oggi coordinatore delle attività mediche di Popoli e Sol.Id.

Seduto a destra un giovanissimo Nerdah Mya, figlio del leader dell’Esercito di Liberazione Nazionale Karen. Al centro il Dr. Bawah, “colonna” della resistenza Karen e oggi
coordinatore delle attività mediche di Popoli e Sol.Id. e Franco Nerozzi (Foto © Franco Nerozzi)

All’alba del 2000 in un bar di Piazza Erbe a Verona, tre o quattro amici da un po’ hanno smesso di parlare di calcio, drink e donne; posati i bicchieri sul bancone, si sono accorti di essere circondati. Non si tratta di nulla di minaccioso, non c’è né una “retata” né una scazzottata tra tifosi, solo che “quelli di Popoli” si sono accorti che per un attimo, per un impercettibile momento, hanno perso il senso della differenza tra loro e “i buoni borghesi” che affollano il bar. E sì, perché i loro discorsi che spesso li portavano lontano, a parlare di lotta e rivoluzione, di giustizia sociale e impegno vero, erano diventati troppo grandi per stare in quel bar di Piazza Erbe. “Son tutti buoni a parlare” avrà detto qualcuno, con quella classica sferzata schietta che solo un buon accento veronese sa imprimere. Immediatamente ad una sequela di domande, dubbi, incertezze si era posto un fine in quella frazione di vita che serve a trasformare un “perché non”, in un “perché no”.

In quel gruppo di fondatori c’era Franco, reduce da un suo reportage in Sudafrica per Frontiere, lo speciale del Tg1. La sua vita, raccontata in parte nel diario/romanzo Nascosti tra le foglie, di avventure ne aveva avute, l’Afghanistan di Massud, l’Africa di Denard, l’unica telecamera accesa nella Mogadiscio in fiamme. Con lui e altri due amici si compì il primo viaggio. Popoli era ufficialmente nata.

La prima missione del Dottor Maggi e del Dottor Turano, oggi veterani degli interventi di Popoli in terra Karen. I vestiti tradizionali sono stati donati in segno di riconoscenza dalla comunità del villaggio di Boe Whay Hta.

La prima missione del Dottor Maggi e del Dottor Turano, oggi veterani
degli interventi di Popoli in terra Karen. I vestiti tradizionali sono
stati donati in segno di riconoscenza dalla comunità del villaggio di
Boe Whay Hta

L’obiettivo era di recarsi a più di ottomila chilometri di distanza dal baretto di Piazza Erbe per aiutare un popolo in lotta da più di cinquanta anni contro una delle narco-dittature militari più sanguinarie della storia. Andare a conoscere e aiutare «gente che non poteva non suscitare simpatia tra i nostri sostenitori, con la sua condotta irreprensibile nei confronti del traffico di droga e con la grande dignità di una lotta portata avanti senza padrini internazionali, con sacrifici indescrivibili e con il sorriso sempre stampato sul volto». Come si legge nel sito della onlus. Un scelta apparentemente folle che però serviva a «far capire come quella guerra lontana fosse in qualche misura anche la nostra».

La battaglia al fianco dei Karen

Quella gente, i Karen, si battevano sul serio anche per loro. Perché la droga coltivata in Birmania, con il placet della giunta al potere, alla fine arrivava nei ricchi mercati europei, quell’eroina così “buona” da poter soggiogare un ragazzo nel giro di qualche buco, quell’anfetamina così a buon mercato d’aver trasformato il Sudest asiatico nella El Dorado dei narcos. In più, quel piccolo popolo in armi, non chiedeva altro che la propria autodeterminazione, quella che anche l’Onu gli aveva riconosciuto. Volevano una terra loro, per poterla coltivare come facevano da tremila anni, volevano educare i loro figli e tenerli al riparo dal mercato infernale della prostituzione. Volevano essere liberi, ma non come diceva l’Occidente, non costruendosi un futuro di centri commerciali e Pay tv, no, liberi sul serio.

La prima fornitura di farmaci viene caricata su un furgone: destinazione la clinica di Boe Whay Hta, nel territorio Karen.

La prima fornitura di farmaci viene caricata su un furgone: destinazione
la clinica di Boe Whay Hta, nel territorio Karen

Quello fu l’inizio di molte missioni che ancora oggi, persino nell’era del Covid, continuano a dare i loro frutti. Una rete di cliniche, scuole pubbliche, infermieri, docenti, progetti agricoli sostenibili e tanto altro sono oggi una realtà tangibile e un mattone fondamentale della struttura identitaria di un popolo. In più c’è l’esempio, perché quella di Popoli non fu un’evasione esotica da una società annoiata, fu un operazione d’archeologia spirituale: andarono lontano e ci riportarono una gemma di giustizia. Anche se l’avevano ritrovato nel cuore della giungla tropicale, quell’esempio germogliava e fruttificava nella coscienza di moltissimi uomini e donne qui nella vecchia Europa. La eco d’una antica dottrina formulava ora nuove parole d’ordine, identità, sangue, volontà, si rifondava il vocabolario dell’azione contro il grande nulla, l’atto d’accusa al mondialismo del “villaggio globale”.

A vent’anni da allora, più d’una generazione di uomini liberi ha orientato la rotta del proprio cuore sulle coordinate dei volontari di Popoli. Se oggi il loro sentiero è percorso ogni anno da centinaia di volontari, se al loro fianco si sono formate nuove strutture di volontariato internazionale indipendente, se quella promessa fatta ad un guerrigliero Karen in una giungla continuerà ad essere onorata in futuro, si dovrà a questo. Perché, sebbene si possa pensare che “la nostra guerra” sia qui a casa nostra, non si può più ignorare che il fronte dell’essere, oggi come allora, corre lungo tutta la Terra come l’Equatore. Perché oggi un padre guarda una figlia mettere i piedi sul tracciato delle sue orme andando avanti. Perché, tutto questo non si è fatto perché era possibile, ma fu reso possibile perché si fece.

E perché oggi, con un nuovo golpe militare in atto in Birmania e con una delle fasi più cruente della pulizia etnica, ci si ritrova ancora una volta ad aggiungere a tutti questi perché un rivoluzionario perché no.

Alberto Palladino

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