Roma, 10 ott – Tibet. La polizia cinese spara sulla folla. Oltre sessanta feriti. Due sono gravi. L’episodio è accaduto ormai tre giorni fa nella contea di Nagchu nella regione di Driru.
Le proteste del mondo occidentale e degli Usa, come al solito, non sono pervenute. Gli embarghi sono roba per paesi come la Siria o Cuba e i tibetani non sono evidentemente in cima alle preoccupazioni del Nobel per la Pace Barack Obama.
Quaranta gli arresti finora, nel corso di un mese che si preannunciava caldo già dal dispiegamento di forze, con 18.000 agenti a presidiare la regione dal 10 settembre scorso e già diversi scontri in vista della festa nazionale dell’ 1 ottobre.
Ed è proprio questo clima forzatamente patriottico che sta alla base dei fatti, allorché molti tibetani sono stati costretti ad esporre la bandiera cinese ed in tantissimi si sono rifiutati di farlo, in segno di protesta e resistenza contro quella che è da parte della Cina popolare un’occupazione che si protrae dal 1950.
E’ stato proprio l’arresto di Dorje Draktsel, uno dei tanti tibetani ribelli, che aveva peraltro incoraggiato altri ad imitarlo nel suo rifiuto di issare la bandiera cinese, a scatenare la contestazione e la violenta repressione da parte della polizia cinese, che ha infatti caricato e sparato sulla folla giunta nei pressi dell’abitazione dell’uomo, facendo anche uso di gas lacrimogeni.
Decine le persone che riportano ferite a braccia e gambe, molti altri denunciano brutali pestaggi.
Infine, per impedire la fuga di notizie, la polizia ha provveduto a sequestrare telefoni e macchine fotografiche, ha bloccato l’accesso alla zona ed al web, tant’è che del fatto si è avuto notizia con due giorni di ritardo soltanto grazie a Radio Free Asia. Due villaggi, Mowa e Monchen, sono circondati dalle forze di sicurezza cinesi, mentre la repressione del governo si è spinta fino a negare le cure mediche ai rivoltosi, ai quali è stata anche minacciata l’espulsione dei figli da scuola.
Emmanuel Raffaele