Secondo quanto riportato dal New York Times il diplomatico indiano sfruttava la propria domestica, anch’essa indiana, pagandola soltanto 430 euro al mese e costringendola a turni di 18 ore lavorative al giorno. L’accusa sostiene inoltre che la vice-console avrebbe fatto firmare alla dipendente un contratto di lavoro fittizio da 4.500 dollari obbligandola a non prendere giorni di malattia visti i costi giudicati eccessivi dell’assicurazione sanitaria, ovviamente non sottoscritta per la collaboratrice. Dulcis in fundo alla domestica era stato tolto il passaporto per evitare che tentasse di tornare in India vista la condizione di sfruttamento.
La vicenda ha causato una crisi diplomatica tra i due paesi, con il governo indiano che ha difeso a spada tratta il proprio rappresentante parlando di “trattamento barbarico” riservato ad un diplomatico, cancellando gli appuntamenti istituzionali tra rappresentanti americani e indiani, ordinando alla polizia di Delhi di rimuovere le barricate a protezione dell’ambasciata americana e bloccando l’importazione di alcool esentasse di cui beneficia l’ambasciata americana. Un diplomatico indiano al quotidiano The Hindu ha inoltre dichiarato: “Se stanno sminuendo ciò che il nostro status di diplomatici ci garantisce, avranno lo stesso trattamento”.
Risposta dura quindi da parte di Delhi che non intende subire supinamente la decisione di Washington e che alla vigilia delle elezioni parlamentari strizza l’occhio all’antiamericanismo diffuso nella società indiana, soprattutto tra i sostenitori dei partiti nazionalisti. Prova ne è che che centinaia di attivisti del Bjp, il maggior partito nazionalista indiano, hanno accolto trionfalmente la vice-console al ritorno a Mumbai scandendo slogan e mostrando manifesti contro gli Stati Uniti.
Eugenio Palazzini
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