Uno coinvolgente come una cartella esattoriale, che incarna il grigiore di una presunta borghesia “rispettabile” e “anglosassone” che nessuno rispetta più dall’Ottocento e che anche gli anglosassoni hanno mandato a quel paese. E, paradossalmente, Parisi prova pure, in un’intervista al Corriere della Sera, a cavalcare senza tanta convinzione il fenomeno Trump, spiegandoci che “dopo la vittoria di Trump negli Usa è sempre più evidente come la sinistra non sia stata in grado di capire il malessere, l’insicurezza, l’impoverimento, le paure di intere comunità”. Ma, attenzione, “se l’alternativa non può essere Grillo, non può esserlo nemmeno un centrodestra guidato da Salvini con i suoi slogan e le sue ruspe. FI e i moderati sono a questo bivio: imboccando la via indicata dalla Lega ci si schianta, scegliendone un’altra ci si candida a vincere”.
Richiamarsi a Trump per rivendicare ancora la rappresentanza dei fantomatici “moderati” è un colpo che ha del fantascientifico. E ancora: “Io non sono di FI, non ci sono entrato quando mi chiesero di fare il coordinatore e non ci entrerò. E non penso all’ennesimo partitello, ma a qualcosa di più grande. I partiti per come li abbiamo conosciuti sono finiti, la vittoria di Trump insegna. Il processo di ricostruzione dell’area liberale e popolare va fatto oltre FI, perché lì dentro tante persone non ci entrerebbero mai”. Continua, quindi, il gioco di citare Trump per rivendicare l’esatto contrario. Del resto, se i partiti sono finiti è appunto in direzione di figure carismatiche che sappiano intercettare una certa rabbia, non in quella di burocrati liberali senza alcuno spessore politico. E poi, se vuole essere Trump, Parisi si faccia almeno il ciuffo arancione.
Giuliano Lebelli