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Quella sul Recovery Fund è un’asta al ribasso. E in ogni caso saremo noi a rimetterci

by Filippo Burla
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Roma, 18 lug – Più che una trattativa, quella sul Recovery Fund sembra un’asta al ribasso. C’è chi offre sempre meno, chi schiaccia il pedale del freno, chi si abbarbica in spericolate analisi sociologiche sulla poca credibilità dei potenziali (molto sulla carta) beneficiari. Il risultato è che, molto probabilmente, la versione del Next Generation Eu (ma tutti continuiamo comunque a chiamarlo Recovery Fund: tanto a breve non ce ne ricorderemo più) che uscirà dall’ennesimo, straziante Consiglio europeo sarà l’ultima di una serie di armi spuntate con cui Bruxelles tenta di tenersi in piedi. A danno, principalmente, dell’Italia.

Una trattativa partita male che finirà peggio

La discussione è aperta. 750 miliardi o 500? Quanto in prestito e quanto a fondo perduto? A quali condizioni? E soprattutto: quando? Partiamo dalla fine: anche si trovasse una quadra tra contendenti ormai ai ferri corti, le risorse che l’Unione intende mettere in campo non arriveranno, ad essere generosi, prima del 2021. Per poter disporre di risorse da girare poi agli Stati la Commissione, infatti, ha due opzioni: o rivolgersi al mercato tramite l’emissione di titoli oppure mettere mano ad un primo abbozzo di fiscalità comune. Non un’operazione che si concluderà – ripetiamo: ammesso che si raggiunga un accordo – nel giro di poche settimane ma per la quale serviranno mesi, se non anni nella seconda ipotesi. Peccato che le economie del vecchio continente e, in particolar modo, quelle degli Stati più colpiti dagli effetti della pandemia, ne abbiano bisogno immediatamente. Attendere il 2021 (forse) significa perdere altro tempo prezioso – e costringere alla chiusura non sappiamo quante aziende, lasciando a casa milioni di lavoratori – in attesa dell’esito di una trattativa che, partita malissimo, non potrà che finire peggio.

L’elefantiaco processo decisionale comunitario non esaurisce però il suo nefasto orizzonte su una questione di tempistiche. Questo perché, nell’ipotesi in cui il Recovery Fund sia infine varato, qualsiasi sia la strada prescelta non potrà – come detto – che basarsi o sull’attuale bilancio Ue o sulla nascita di una qualche imposta comunitaria. Due vie che puntano dritte verso una vittima sacrificale: l’Italia.

Una tassa comunitaria?

Iniziamo dall’ipotesi che l’intero impianto poggi sul bilancio comunitario ed escludiamo i prestiti, somme che per definizione vanno restituite. Restano fuori i contributi cosiddetti “a fondo perduto” che però a fondo perduto non sono per chi, come noi, è da anni contribuente netto – diamo in media 5 miliardi in più di quello che riceviamo – rispetto alle necessità finanziarie dell’Unione. Al più potremo ridurre l’esposizione, ma se già con le cifre circolate sino ad oggi non passeremo in territorio positivo, ciò è tanto più vero quanto più ridotti saranno – come chiedono i “frugali” – gli stanziamenti concessi gratis et amore dei. Proviamo a guardare allora all’altra via, quella della creazione di una qualche “tassa europea”. Il carnet del fisco è sempre ricco, ma la Commissione sembra avere le idee molto chiare: si parla già di una plastic tax comunitaria, capace di fornire finalmente all’Ue una dotazione di risorse proprie ed ecologicamente sostenibili per la gioia di Greta. Peccato che l’Europa sia il continente meno inquinatore in tal senso e che una siffatta imposta colpirebbe indiscriminatamente una miriade di realtà industriale, tra cui tantissime italiane o che hanno impianti produttivi nella nostra nazione, come già successo nel recente passato.

In ogni caso ci rimetteremo

Da qualunque parte lo si guardi, insomma, il Recovery Fund per noi si tradurrà in un ulteriore, non necessario inchino rispetto a priorità scelte altrove. Tanto più che sugli stessi contributi a fondo perduto (che, come detto, a fondo perduto non sono) si sta giocando la partita delle condizioni alle quali spenderli, altro capitolo della trattativa che vede l’Olanda ferma sulla necessità di imporre clausole-capestro, quando non addirittura poteri di veto. Ricapitolando: sono soldi nostri in quanto contribuenti netti, non arriveranno prima del duemila e chissà e ci diranno pure come spenderli, magari minacciandoci di saltare alcune rate (le decine e decine di miliardi promessi arriveranno in piccole dosi, quanto basta per allentare il guinzaglio al quale il governo Pd-M5S vuole legarci per continuare a garantirsi il governo di fatto, con la collaborazione di Bruxelles, anche dopo una più che probabile débacle elettorale) qualora una spesa non dovesse essere gradita ad un qualsiasi funzionario Ue. Scommettiamo che finirà esattamente così?

Filippo Burla

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