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Borsa e pallone, perché investire in azioni di società calcistiche non è quasi mai un buon affare

by Claudio Freschi
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Roma, 21 apr – Il recente crollo in Borsa delle quotazioni della società Juventus FC a seguito della eliminazione dalla Champions League, ha ribadito per l’ennesima volta come i risultati sportivi condizionino in maniera determinante l’andamento dei titoli delle società calcistiche. Se la quotazione di questo tipo di società sui mercati finanziari è sicuramente un metodo molto efficace per raccogliere capitali ed eventualmente progettare nuovi investimenti, non sempre si è dimostrato redditizio per il singolo investitore che spesso mette mano al portafoglio per ragioni “sentimentali” ma si trova poi incastrato in posizioni in perdita.

Evoluzione nel tempo

Nel lontano 1983 fu il Tottenham a diventare la prima società di calcio a richiedere la quotazione alla Borsa di Londra; negli anni successivi divenne simili richieste divennero una tendenza in tutta Europa raggiungendo il picco di 36 squadre quotate nei vari mercati nel 2002. Da allora però molti club quotati hanno avuto grosse difficoltà perdendo gran parte del proprio valore e optando per il delisting, ovvero la scelta volontaria di uscire dai mercati finanziari, e ad oggi sono solo 24 le squadre europee quotate:

  • 3 britanniche (Manchester United, Arsenal e Celtic Glasgow);
  • 3 italiane (Lazio, Roma e Juventus)
  • 5 danesi (Aalborg, Brondby, Agf, Copenaghen e Silkeborg)
  • 4 turche (Trabzonspor, Besiktas, Galatasaray e Fenerbahce)
  • 3 portoghesi (Porto, Benfica e Sporting Lisbona)

A queste vanno aggiunte il Borussia Dortmund in Germania, l’Ajax in Olanda, il Lione in Francia, la svedese Aik, i polacchi del Ruch Chorzow e i macedoni del Teteks Tetovo. Sebbene ogni caso sia diverso, è incontrovertibile il fatto che lo Stoxx Europe Football Index che raccoglie 22 delle 24 squadre quotate, abbia performato negli ultimi 10 anni in maniera clamorosamente peggiore rispetto agli indici azionari europei. Basti pensare che l’indice calcistico ha guadagnato meno dell’8% dal gennaio 2009 ad oggi, ovvero una media annua dello 0,7 %; mentre l’indice Stoxx Europe 600 che raccoglie le più importanti società quotate in Europa ha guadagnato oltre il 90% ovvero più del 9 % all’anno.

Questo per dimostrare che nella sua globalità, l’investimento in azioni calcistiche non ha seguito il trend positivo degli indici europei, ed i motivi principali sono fondamentalmente l’aumento esponenziale dei costi di gestione (ad esempio gli stipendi dei calciatori) che ha portato i club ad essere poco attraenti dal punto di vista della profittabilità, e la dipendenza dai risultati sportivi, che ha allontanato gli investitori professionali, abituati a ragionare più in termini di previsioni finanziarie che di partite vinte o perse.

Il caso italiano

Con la legge 586 del 1996 si è introdotta, per le società sportive professionistiche, la possibilità di perseguire lo scopo di lucro rendendole attività commerciali a tutti gli effetti. La prima società a scegliere la quotazione fu la Lazio nel 1998, seguita dalla Roma che nel 2000 incassò dal mercato circa 71 milioni di euro fondamentali per ripianare parte dei suoi debiti, e dalla Juventus nel 2001, che con quasi 39 milioni di azioni vendute incasso 143,190 milioni di euro. Tuttavia, forse a causa di una sopravvalutazione iniziale, i primi anni di quotazione furono disastrosi per tutti e tre i club, con un drastico calo del valore delle azioni, tendenza che solo recentemente è leggermente migliorata.

La Lazio ha perso dal giorno del suo ingresso sui mercati il 94% del suo valore; alla Roma è andata un po’ meglio in quanto il calo è stato del 77%; solo la Juventus grazie ai successi nel campionato italiano, ad una politica di marketing aggressiva e allo stadio di proprietà ha visto crescere il valore dell’azione dal primo giorno di quotazione, ma solo di un misero 4% in 18 anni. Purtroppo le squadre italiane non sono state le sole ad aver dovuto affrontare queste difficoltà, l’evidenza dei dati fornisce un quadro generale negativo per la maggior parte delle società di calcio internazionali.

D’altronde proprio gli inglesi che erano stati i precursori della quotazione furono i primi ad accorgersi delle criticità legati ai titoli calcistici, ovvero i problemi di volatilità troppo elevata, la bassa patrimonializzazione e soprattutto le basse opportunità di finanziamento dovute alla scarsa fiducia degli investitori in questa tipologia di titoli.

Le storie di successo

Esistono però alcune eccezioni, società che hanno saputo sfruttare i benefici del collocamento delle proprie azioni sui mercati e in seguito ad efficienti gestioni e sagaci politiche di marketing hanno ottenuto discrete performance borsistiche. Prediamo ad esempio due squadre molto diverse tra loro per blasone e forza sul campo, ma accomunati da un modello di business vincente, il FC Copenaghen e il Manchester United.

Il club calcistico danese è di proprietà della società Parken Sports & Entertainment, il cui valore dalla quotazione avvenuta nel 1995 è aumentato del 275 %. Il motivo è presto detto, la Parken Sports è una società che controlla tutte le attività svolte all’interno dello stadio di proprietà, che ospita oltre alle partite di calcio, concerti eventi e meeting aziendali, un parco tematico e una serie di palestre e centri benessere. I ricavi proveniente dalla gestione calcistica in senso stretto sono inferiori al 30% del totale. Un’idea molto moderna di società sportiva, legata a diversi settori di intrattenimento e sport che ha valorizzato al massimo l’impianto sportivo divenendo molto meno legata ai risultati della squadra di calcio.

Il Manchester United è una delle squadre di calcio più popolari del mondo, nonché uno dei team più vincenti di sempre e le sue azioni sono quotate dal 2012 a Wall Street, dopo aver effettuato il delisting dalla borsa londinese nel 2005 per volontà della nuova proprietà guidata dall’americano Malcolm Glazer. Con una capitalizzazione di mercato che supera i 3,3 miliardi di dollari, le azioni dello United hanno guadagnato quasi il 30 % negli ultimi 7 anni, non male considerato che l’ultima vittoria in Premier League risale al 2013. In questo caso gran parte del successo del club è dovuto alla grande abilità del management societario nello sfruttare al meglio l’enorme popolarità del Manchester United a livello mondiale. Basti pensare che ogni anno vengono venduti prodotti con il marchio della società inglese per un importo superiore a 100 milioni di euro. Allo stesso modo circa 250 milioni di euro sono la cifra derivante dai diritti pagati solo nel 2018 dalle tv di tutto il mondo per trasmettere le partite dello United. Se a questi aggiungiamo circa 130 milioni di euro che annualmente entrano per la vendita dei biglietti delle partite allo stadio di proprietà Old Trafford che ha una percentuale di riempimento media del 99,2 %, possiamo capire come i risultati sportivi in questo caso non siano così fondamentali nel determinare il valore del titolo.

Esposizione a manovre speculative

Possiamo affermare che nella maggioranza dei casi le azioni delle società calcistiche quotate non si sono rivelate un buon affare per gli investitori. Le forti oscillazioni dovute ai risultati sono spesso amplificate dalla scarsità di flottante in circolazione, ovvero le azioni negoziabili sono spesso una percentuale molto piccola rispetto al totale in quanto le proprietà tendono a detenere percentuali decisamente elevate di capitale per garantirsi il controllo del club. Per questo motivo sono spesso esposte a manovre speculative, e tale fenomeno è tanto più accentuato per le società che non hanno una fonte diversificata di ricavi. Il rischio di soffrire anche a livello economico per la sconfitta della propria squadra del cuore diventa quindi tragicamente concreto.

Claudio Freschi

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