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La foto del bambino siriano e i buonissimi fan dell'etnocidio

by Adriano Scianca
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APTOPIX Turkey MigrantsRoma, 3 set – La foto del bambino siriano morto sulle coste turche è finita sulle prime pagine di molti giornali. Si tratta di un’immagine disturbante, agghiacciante, ma che mostra ciò che accade quotidianamente nel Mediterraneo. Perché lì la gente muore. Ogni giorno. Ora, la potenza di un’immagine di fronte a dei freddi dati è nota, ma da chi si propone come analista o, peggio, come decisore, ci si aspetterebbe maggiore lucidità: sì, nel Mediterraneo la gente muore, bambini compresi. Ve ne accorgete solo ora?
Detto questo, possiamo passare il tempo a raccontarci quanto male ci fa quello scatto, oppure ragionare su come fare affinché ciò non accada più. Con la seconda opzione si prendono meno like su Facebook, ma forse si fa del bene. Del bene vero, non quella cosa orribile impastata di retorica e odio di sè che genera gli etnocidi. Operare per il bene significa che, per esempio, quattro anni fa si poteva aiutare uno Stato certo autoritario, ma laico, con una tolleranza religiosa unica nella regione, con donne ai vertici delle istituzioni e un pluripartitismo almeno teorico a resistere al terrorismo. Si poteva fornire aiuto economico, politico e anche militare. Sarebbe bastato poco, dato che la piovra jihadista era un polipetto fastidioso prima che il mondo isolasse Assad.
Tutto questo accadeva quattro anni fa. Il bambino siriano della famosa foto forse neanche ce li ha quattro anni. Oggi poteva stare fra le braccia di sua madre, a casa sua, anziché essere inghiottito e risputato dall’abisso, come una scarpa vecchia. Tutti i buoni di oggi, i collezionisti di like tramite foto mortuarie, hanno invece sostenuto chi ha scacciato quel bambino dalla sua terra. E oggi, anziché chiedere scusa e tacere per sempre, non sanno proporre altro che ulteriore caos, ulteriore etnocidio. Più affondano nelle sabbie mobili e più si agitano, accelerando così l’inabissamento. Il che sarebbe bene, se questi bastardi non portassero a fondo anche noi, dopo quel bambino siriano.
Adriano Scianca

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