Roma, 25 ott – Se Robert Ervin Howard non meritasse di essere ricordato per alcuna altra ragione, basterebbe il fatto di aver ispirato il film Conan the Barbarian (1982) di John Milius, di cui proprio in questi giorni è stato annunciato un sequel sceneggiato da Andrea Berloff e voluto fortemente da Arnold Schwarzenegger dato in uscita per il 2014. Una pellicola, quella di Milius, che rappresenta il dialogo tra due epoche, tra quella della fine degli anni venti dell’autore pulp amante di Lovecraft che si voleva Scotch-Irish, e in cui ancora una parte d’America viveva uno Zeitgeist globale intriso della riscoperta e dalla presa di coscienza delle identità europee; e “gli anni venti dei poveri” rappresentati dalla fine degli anni settanta dell’allievo di Kurosawa e John Ford autore di Apocalypse Now e Dirty Harry, in cui anziché essere “tutto possibile” se non altro tutto sembrava nuovamente possibile, com’era davvero stato entro certi limiti nel periodo tra le due guerre mondiali.
Certo, la prima versione cinematografica di Conan trasfigura sotto vari aspetti il personaggio howardiano, cui è fedele più nello spirito che nella lettera. Ma trascende con tutta probabilità anche le intenzioni consapevoli dell’“outsider di successo” che ne è regista e coautore, un americano di origini ebraiche che ha tentato senza risultati di partire volontario per il Vietnam e pure non esita a seconda delle occasioni a definirsi “maoista”, “fascista Zen” o “estremista di destra”. Caso forse non unico ma esemplare, nell’opera di Milius la forza di archetipi che si agitano nell’inconscio collettivo junghiano di coloro che hanno guardato nell’abisso, e in cui l’abisso ha a sua volta sbirciato, converge con quelle che sono magari casuali scelte di regia o banali esigenze di copione nel generare un indiscusso cult movie dai molti livelli di lettura, che suona tuttora a sfida di una political correctness che giusto all’epoca stava definitivamente affermando la sua egemonia contro ogni residuo di tentazione eretica, lasciando dietro di sé al massimo la finta trasgressione alla Tarantino.
Conan, non a caso stroncato dai commentatori dell’epoca malgrado il successo al botteghino, si ritrova così a includere oggettivamente un’orgia simbolica di riferimenti sovrumanisti, etno-identitari, archeofuturisti che finiscono per essere apprezzabili da un bambino di otto anni come da un critico cinematografico come da chi si interessa di antropologia culturale della civilizzazione contemporanea.
La favola è riassunta dalla parafrasi nietzschana che apre il film: “Ciò che non ci uccide, ci rende più forti”. Come le prime scene ben descrivono, Conan nasce in una libera tribù di un popolo primigenio, originario, iperboreo, uscito a sua volta dalle brume di un Nord quasi metafisico, temprato dal fuoco e dal ghiaccio, come le lame della superiore tecnologia dell’acciaio di cui è custode, attraverso una superiore e solstiziale volontà di sopravvivenza ed autoaffermazione. E se i Cimmeri vengono esplicitamente posti da Howard come immaginaria popolazione protoceltica, nel film risulta inevitabile leggere in tutto ciò una metafora dell’intera avventura indoeuropea.
Eppure, il numero, la sorpresa, il tradimento hanno la meglio; e l’eroe si trova così a ricapitolare anche nella sua storia individuale, come in un percorso iniziatico, il raggiungimento del sublime attraverso difficoltà che minacciano l’estinzione stessa della sua stirpe. La sua tribù e famiglia viene sterminata, lui stesso viene reso schiavo, ed è l’unico che sopravviverà alle prove che gli saranno riservate, prima rafforzandosi come uomo, poi come guerriero, ed infine acquisendo una piena coscienza di sé e del suo ruolo storico nell’ambito del mondo già decadente che lo circonda (Subotai: “Civiltà, antica e depravata. L’hai mai conosciuta?”. Conan: “No!”).
La sua vita si ritrova perciò ordinata intorno alla ricerca del “segreto dell’acciaio” ed alla vendetta nei confronti del culto escatologico, orientale e monoteista di Thulsa Doom, lo stesso che alla ricerca dell’acciaio ha trucidato i suoi e che predica il tradimento delle proprie radici e della propria comunità di appartenenza (“i figli che assassinano i genitori nel sonno” di cui a Zamora gli parlerà re Osric, che il narratore definisce “a suo tempo un forte vichingo come il mio signore”, cioè Conan stesso) a favore di una promessa di salvezza individuale attraverso l’annullamento di sé.
Il protagonista conserva infatti memoria delle parole del padre, che echeggiano la guerra degli dèi contro i giganti, degli Asi contro i Vani, o il mito di Prometeo, ma anche le esortazioni zararathustriane a restare “fedeli alla terra”: “Fuoco e vento provengono dal cielo, dagli dei del cielo, ma è Crom il tuo dio, Crom che vive nella terra. Un tempo i giganti vivevano nella terra, Conan, e nell’oscurità del caos mistificarono Crom e gli sottrassero il segreto dell’acciaio. Crom si adirò e la terra tremò e fuoco e vento si abbatterono su quei giganti e scagliarono i loro corpi nelle acque. Ma nel loro furore gli dei si dimenticarono del segreto dell’acciaio e lo lasciarono sul campo di battaglia, e noi che lo trovammo non siamo che uomini. Né dei, né giganti. Solo uomini. E il segreto dell’acciaio ha sempre portato con sé un mistero; devi impararne il valore, Conan, devi impararne la disciplina. Perché di nessuno, di nessuno al mondo ti puoi fidare, né uomini, né donne, né bestie. Di questo solo ti puoi fidare”.
Da schiavo alla ruota a gladiatore, passando attraverso la scoperta della cultura scritta, della sensualità, delle discipline marziali, ed alla fine liberato dal suo padrone che invidia in lui ciò che non è riuscito a trasmettere a suo figlio, il protagonista si trova nella fuga a ricongiungersi con la sua storia ancestrale e la sua anima, rappresentata dalla spada che recupera dallo scheletro di un re di tempi immemoriali nel sepolcro sottorreaneo in cui è costretto a rifugiarsi dai cani che lo inseguono per sbranarlo. Sottomette come Tannhäuser con la forza della sua innocenza virile una strega da cui ottiene le informazioni che gli servono. Liberato Subotai, un arciere errante che venera i venti (Subotai: “Io prego ai quattro venti e tu?”. Conan: “Io prego Crom, ma solo raramente… lui non ascolta”. Subotai: “E a che ti serve, allora?”. Conan: “Crom è forte. Se muoio andrò al suo cospetto. Mi chiederà ‘Qual è il segreto dell’acciaio?’ e se non lo so, mi scaccerà dal Valhalla e riderà di me”).
Viene finalmente a contatto con il suo nemico ed opposto radicale. E ad esso rapisce – insieme con Valeria, archetipo della femminilità guerriera (“Volete vivere per sempre?”), il cui nome nel montaggio finale del film resta suggestivamente ignoto – il gioiello chiamato l’Occhio del Serpente, mediante la sfida suprema che consiste nell’uccisione di un gigantesco rettile che rappresenta l’opposto del tentatore di Eva e l’avatar invece di una divinità rapace e insensata che oppone il Segreto della (mortificazione della) Carne al Segreto dell’Acciaio.
Ma in un’ulteriore svolta di sapore wagneriano, l’“ebrezza dell’oro” così conquistato (cfr. il mito di Gullweig o dell’Oro del Reno) finisce per rappresentare la debolezza e la nibelungica maledizione dell’eroe, che lo condurranno alla dissoluzione nella levantina Zamora, e poi da solo – per riscattarsi con Osric e recuperarne la figlia irretita – al tempio di Set. Smascherato, Conan finirà inevitabilmente per essere catturato, e dopo un confronto con il potere che nasce da ciò che rende schiavi gli uomini (“figlia mia, vieni a me”, dice Thulsa Doom ad una sua accolita facendola precipitare, per mostrare la disponibilità e l’anelito dei suoi seguaci all’autoannullamento), viene torturato ed alla fine inchiodato all’Albero del Dolore – come ad Yggdrasil Odino sacrificato a se stesso per scoprire così il segreto delle rune -, ma pronto sino all’ultimo a guardare in faccia al sole e ad affrontare gli avvoltoi che vorrebbero cibarsi anzitempo della sua carcassa. E così Conan, posto di fronte alla sua morte, apprende infatti dal suo nemico qual è il vero segreto dell’acciaio: il segreto dell’acciaio sta nel braccio che lo brandisce. In Conan stesso, cioè, e nella sua capacità di prendere coscienza della sua identità e potenzialità, di “divenire ciò che è”.
Insieme al fedele Subotai è Valeria, la Donna che è come tale Custode della Stirpe, che lo riconduce morente dallo Stregone dei Tumuli, guardiano straniero e grottesco di “ciò che non è più compreso e ricordato” in un’altura dove un ventoso sito megalitico custodisce i resti di re ed eroi ancestrali, e lo salva offrendo se stessa agli dei e al destino come prezzo per la improbabile salvezza e guarigione, tramite il ricorso ad un volontà indomabile consacrata da eccezionali rimedi, dell’eroe. Prezzo che sarà riscosso quando Conan, Subotai e Valeria, in un bagno di sangue e secondo l’impegno preso, riscatteranno la figlia di Osric dalla possessione del culto (interrompendo la sua comunione di una brodaglia letteralmente di corpi e sangue umani), ma Valeria sarà ferita a morte durante la fuga dal serpente/freccia avvelenata di Thulsa Doom.
Ciò determina lo scioglimento dell’azione. Il destino di Conan si compie. Smette di fuggire, e nella Stonehenge dello stregone dei tumuli erige a Valeria un pira funebre le cui fiamme immancabilmente si levano alte là dove pure “nessun fuoco può restare acceso”, attirando consapevolmente il nemico per affrontarlo in una ricerca al di là del bene e del male di se stesso e di quella “gloria che non muore” che come ben illustra Dumézil resta al centro del sistema etico di tutte le culture indoeuropee rimaste fedeli alla loro matrice fondamentale: “Crom! Non ti ho mai pregato prima d’ora, non saprei come farlo. Nessuno, nemmeno tu, ricorderà se eravamo uomini buoni o cattivi, perché abbiamo combattuto, o perché siamo morti. No, ciò che conta è solo il coraggio, e che due si sono battuti contro molti, ecco cos’è importante! Tu ammiri il coraggio, Crom, quindi accogli la mia unica richiesta: fa’ sì ch’io mi vendichi. E se tu non m’ascolti, allora va’ alla malora”.
E la battaglia che segue vede come in Termopoli immaginarie dare fondo, per far fronte ad un nemico soverchiante, a tutte le risorse disponibili dei vivi e dei morti, queste ultime includendo le armi e gli scheletri della necropoli dove lo scontro ha luogo e perfino l’apparizione/ricordo/presenza di Valeria in forma di Valkyria nel momento del pericolo supremo. Sino a che il tentativo di Thulsa Doom, quando deve rassegnarsi alla disfatta, di uccidere con un freccia la principessa liberata induce quest’ultima ad abiurare finalmente la sua confessione ed ad accettare il ritorno presso la reggia paterna.
Ma prima deve aver luogo la finale resa dei conti presso il tempio di Set, dove Conan sul punto di ucciderlo deve ancora una volta affrontare l’eloquio ipnotico di Thulsa Doom, che pretende come Mime con Sigfrido di essere “suo padre”, nel senso di colui senza il quale Conan non sarebbe mai divenuto Conan. Il Cimmero per un attimo sembra vacillare; ma è solo una beffa per l’arroganza oracolare dell’avversario, e la sua testa spiccata dal busto dalla spada del vincitore viene da questi lanciata in segno di scherno e di ripulsa tra gli attoniti seguaci del messia, che cadono in preda alla confusione e si disperdono intanto che il tempio viene dato alle fiamme, e Conan declina le aperte profferte della principessa per continuare a seguire il destino che, come il narratore ci ricorda, lo renderà alla fine re di Aquilonia, il più potente impero dell’era hiboriana.
L’acciaio temprato nel fuoco e nel ghiaccio ha vinto sulla magia inferiore di Thulsa Doom e sulla sua massa amorfa fanatizzata ed alienata da promesse di redenzione universale. La foresta ha vinto sul deserto. Ma non si tratta di restaurare ciò che è stato, o di raggiungere un punto definitivo. Come nella fine della Tetralogia o dell’Iliade o del Beowulf, la storia resta aperta, il domani resta da conquistare giorno per giorno.
Se già Howard era stato tacciato di razzismo per il fatto di considerare apertamente l’identità culturale ed etnica dei suoi personaggi come determinante di ciò che essi rappresentano, e viceversa ciò che essi rappresentano come esemplare della loro identità culturale ed etnica, ben di peggio è stato detto di Milius, che da parte sua, in aderenza all’interpretazione visiva “vichinga” del mondo di Conan da parte dell’illustratore Frank Frazetta, ha dichiarato di aver voluto che il Conan del film fosse “un’eroe mitico nordeuropeo”, impressione questa rafforzata dall’accento della recitazione originale di Arnold Schwarzenegger, quando l’attore non era ancora diventato il flaccido governatore neocon della California e prima ancora il simbolo del militarismo yankee.
Nel film d’altronde, cosa singolare per una produzione americana, non vi sono “superiori” o “inferiori” nel film, tanto meno “buoni” e “cattivi”. Thulsa Doom è certo crudele, ma né più né meno di Conan, ed è tutt’altro che stupido, anzi, è proprio dal confronto con lui, oltre che dalla vita, che Conan ottiene le risposte che cerca. Si tratta semplicemente di una sfida a morte tra due mondi irriducibilmente diversi, in cui il regista, e di conseguenza lo spettatore, finisce per prendere appassionatamente le parti per quello di Conan, proprio in quanto rappresenta la negazione di tutto ciò che, sia pure nella forma caricaturale e metaforica del culto del serpente, ritrova dominante nel mondo contemporaneo, con la sua carica di universalismo, egualitarismo, alienazione, fanatismo morale, ottundimento collettivo, attesa messianica di una fine della storia, eccetera.
Rispetto a questi lapsus, d’altronde, Hollywood produce automaticamente (non ipotizziamo che lo faccia consapevolmente, per carità, sarebbe “complottista”) i propri anticorpi. Nel caso di film europei la ricetta è di solito un remake utile sia a internalizzare i profitti di un soggetto o di un immaginario commercialmente interessanti, sia a cambiarne in modo più o meno sottile i connotati artistici e la valenza ideologica; nel caso di film americani di successo dai contenuti in qualche modo non perfettamente allineati è più tradizionale restituire l’“universo”, il contesto, talora l’atmosfera e cast del primo film in uno o più sequel che approfittano commercialmente di un’audience già precostituita ed attirata magari proprio dalla maggiore o minore devianza dell’opera, e al tempo stesso ne correggono il tiro proprio di fronte al pubblico che con tale attrazione dimostra di averne più bisogno, da Rambo a Guerre stellari ad Alien a Matrix a Rocky a Highlander e così via.
Nel caso di Conan, per non farci mancare nulla, i piatti ci sono stati serviti entrambi. Prima con il noioso Conan il distruttore (1984) di Richard Fleischer, un’antologia di tutte le banalità manichee del fantasy antifaustiano alla Tolkien, con Olivia D’Abo ad interpretare la parte della “ragazza della porta accanto” e Grace Jones, la cui interpretazione rappresenta il meglio del film, a riaffermare le ragioni del melting pot multiculturale e multirazziale. Ma peggio ancora è l’omonimo Conan il barbaro del 2011, significativamente affidato alle cure di Marcus Nispel, già regista con il repellente Pathfinder della parabola del vichingo “buono” che si allea con i pellerossa che l’hanno allevato prima di Colombo per combattere i suoi disgustosamente europei compatrioti e ributtarli in mare. I muscoli oliati sono rimasti, ma Conan ora è interpretato dall’hawaiano Joseph Namakaeha Momoa, e il suo ruolo è diventato quello di sobillare schiavi e monaci per resistere, in un ruffiano diluvio di “moderni” effetti speciali, al sogno di un signore della guerra che vorrebbe rifondare un’antica grandezza. Ma finché il primo film resterà in circolazione in DVD, Blu-Ray e su Internet, il “recupero” di Conan alle ragioni dei suoi avversari continuerà a restare quanto meno problematico.
Stefano Vaj
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