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“Rehab” e confessioni: quanta ipocrisia nelle crisi dei vip

by La Redazione
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large-good-will-hunting2Roma, 15 ago – Le confidenze dei personaggi famosi sui propri problemi mentali sono diventate un “genere” mediatico, che vale per sé e non per l’utilità che ha. L’idea non sarebbe male per chi è in buona fede, far raccontare un problema a chi suscita simpatia, ammirazione o è semplicemente un’icona può far sentire meno solo l’uomo della strada, spingerlo a curarsi, o a chiedere consigli. Dopo poco però si è vista appunto la formazione di un “genere” di notizie, servizi, interviste, che sono sempre più focalizzati sul personaggio, e poco sul messaggio da trasmettere.

Le caratteristiche del genere sono abbastanza fisse ormai. La prima è la formula “shock”, che di solito è “chi se lo aspettava che…”. Ad esempio, chi se lo aspettava che Robin Williams, icona del personaggio che porta speranza, voglia di vivere, che sconfigge il dolore anche quando non poteva evitarlo come clown dei malati o sognatore “al di là delle nuvole”, chi se lo aspettava che avesse una vena malinconica, addirittura suicida? Ma come chi lo pensava? Se pensate che siano soggetti a suicidio e a depressione le persone tristi, caratterialmente chiuse e pessimiste, riflessive e che non vivono mai pienamente la vita, vi sbagliate. Questo se mai è sorprendente, visto l’enorme potere di orientamento che i media dovrebbero avere, che non si sappia neanche questo. Ma la formula della sorpresa, dello sgomento, del “proprio lui, chi l’avrebbe mai detto…” funziona talmente tanto che l’articolo deve iniziare così.

La seconda caratteristica è il paradosso della cattiva sorte, che suona così “eppure si era ripreso”, “eppure ce la stava mettendo tutta”, “eppure era uscito dal rehab” (quest’ultima vale soprattutto per gli alcolisti e i tossicodipendenti). Come tutti ormai sanno, il “rehab” è quello che da noi si chiama “disintossicazione”, trattamenti che rimettono in sesto i ricchi intossicati dalle droghe. Ora, non è un tragico destino che Amy Winehouse, Seymour Hoffman, Whitney Houston, lo stesso Robin Williams (tanti anni fa), siano morti nonostante questi cicli di rehab, spesso poco dopo l’ultimo rehab? Assolutamente no, non è cattiva sorte, perché le disintossicazioni non hanno mai funzionato, e in questo il libero mercato della salute è molto democratico, perché i ricchi sono vittima di inutili e costosi trattamenti così come i poveri della malasanità delle corsie sovraffollate. Uno ha una dipendenza da droga, si disintossica e ritorna in circolazione, cosa ci si aspetta? Ricaduta e rischio di overdose spesso aumentato. Nessuna tragedia, però fa molta sensazione dire che lo è stata.

Date ad un ricco tossicodipendente un medico privato a disposizione solo sua, e finirà come Michael Jackson, che chiedeva, più o meno direttamente, cocktail di medicine sempre più rischiosi per scopi che non erano tanto medici quanto illusioni da tossicomane, “star bene”, “star tranquillo” facendosi con cose sempre più potenti e rapide.

Poi l’ultima regola è che il personaggio in quanto tale è da celebrare, o quantomeno, anche se è morto dopo aver dato segno di avere problemi di droghe, psichici o comunque comportamenti a rischio, va rispettato e ricordato per le sue abilità. Giusto. Oltre questo però si deve in qualche modo fare un necrologio pietoso, e quindi inventare, o presumere, una ragione per cui è morto. Se è morto di tumore “ha lottato fino in fondo” (come se chi muore si lasciasse andare invece), se si è suicidato in fondo era stato lasciato solo da tutti e aveva un infinito bisogno d’amore, se è morto di overdose è colpa dello spacciatore (nel caso di Jackson il medico divenne l’uomo nero che lo aveva ucciso e non, se mai, il collaboratore pagato di una pratica rischiosa). Chi è stato depresso, tossicodipendente, ha tentato il suicidio secondo questo ragionamento si deve vergognare, a meno che non abbia una giustificazione. E ce l’ha sempre, perché non si è mai visto un depresso che percepisca intorno a sé amore, veda positivo, o senta che ce la farà ad andare avanti. A costo di inventarla di sana pianta. Che non ci si deve vergognare, che bisogna intervenire senza cercare le ragioni altrove, che queste malattie sono automatiche lo spiega nessuno.

I personaggi naturalmente parlano di sé anche da vivi, ma finiscono per farlo come rilancio, in cui devono dimostrare, senza obiettività alcuna, che non dalle cure e dalla sorte è derivata la guarigione, ma dal loro valore individuale, altrimenti che pubblicità è ? Un’eccezione da menzionare, in questo senso, è quella del racconto che fece il calciatore Pessotto sul suo tentato suicidio a “La Storia Siamo noi”, umile e coraggioso, uno dei pochi casi di esposizione mediatica davvero corretta. Per il resto, troverete frotte di persone che parlano di depressione, di ansia, di attacchi di panico, quando invece la diagnosi è diversa, ma queste parole fanno tenerezza, mentre altre sarebbero meno spendibili. Perfino chi sale alla ribalta delle cronache perché usa droghe, anziché parlarne con obiettività, sostiene di farlo perché è depresso. Tutti salvano il proprio personaggio o lo celebrano, quasi a nessuno interessa informare le persone o prevenire. Chi si cura ancora dice che “ne è uscito”, vergognandosi di dire che si è curato con medicine o elettroshock e continua a farlo perché serve. Chi è tossicodipendente e si è “ripulito”, è un tossicodipendente che ricadrà, anche se è ricco ed è in televisione a raccontare che ce l’ha fatta e quanto ama la vita.

La conclusione insomma è che le regole che ritroviamo nei necrologi non portano bene, informatevi altrove se volete davvero sapere come si cura la depressione, la dipendenza, forse è meglio sentire chi lo racconta dietro il palcoscenico.

 Matteo Pacini

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