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Totò Riina: l’eterno ritorno del bombarolo fenicio

by La Redazione
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fenicioRoma, 28 gen – La cronaca giudiziaria ha trovato il suo Pozzo di San Patrizio: le intercettazioni del 30 ottobre scorso del vecchio capo dei capi Totò Riina. L’argomento, sicuramente forte, sono le minacce contro il PM Nino di Matteo. Le prime intimidazioni 2.0 della storia della Cupola. Repubblica TV ha avuto l’esclusiva, gli altri hanno raccolto i resti già freddi del lauto pasto. Questa storia ha molti aspetti stravaganti. In primis la location. Il Carcere di Opera di Milano. Poi i protagonisti: l’attore principale e la spalla (il suddetto Riina e un boss della Sacra Corona Unita tale Alberto Lorusso). Entrambi sotto le strette maglie del regime carcerario del 41 bis. Ma, vi sono anche altre interessanti annotazioni, anche di carattere storico, da fare su uno sfogo minaccioso che potrebbe sembrare un testamento spirituale.

Correva l’anno 1943, in quel di Corleone, Giovanni Riina (padre di Salvatore) salta in aria davanti ai figli mentre cerca di aprire una bomba rimasta inesplosa, almeno fino a quel momento. Dal quel botto parte una parabola criminale che vedrà u’Curtu passare dal mercato nero al vertice di una delle più grandi associazioni criminali: Cosa nostra. Una parabola che si concluderà quasi cinquanta anni dopo, il 15 gennaio del 1993 con il suo arresto.

La vendetta di Riina è stata spietata. Il tritolo non servì più per uccidere giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le rispettive scorte. Stavolta la gente comune entra nel mirino. Tre mesi di fuochi d’artificio: 5 ordigni esplosivi, 10 morti. Vediamoli in ordine cronologico. Il quattordici maggio in via Fauro a Roma per colpire Maurizio Costanzo, fortunamente senza vittime. A Firenze, in via dei Georgofili davanti agli Uffizi il 27/05/1993: 5 morti. E poi Milano, il 27 luglio in via Palestro presso il Padiglione d’arte contemporanea: 5 morti. Il giorno dopo a Roma verranno colpite le chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio in Velabro.

Dopo qualche mese inizia una certa pax che insospettisce qualcuno. Una vittoria lampo dello stato o una collaborazione segreta. Veramente questa collaborazione dura dal 1943, dallo sbarco in Sicilia degli americani. Arrivano i cugini di Broccolino. La strada per la repubblica antifascista era spianata. Per questo le coppole vennero premiate. Prima che si decidesse la forma di Stato italiano la Tricania aveva la sua Costituzione. Piena autonomia politica, legislativa, amministrativa, finanziaria, con tanto di esercito stars and stripes. Il tutto concessso con Regio Decreto da Umberto II il 15 maggio 1943.

Poi stragi, finti latitanti e veri infami travestiti da eroi dell’antimafia. Il patto del 1993 tra generali e mafiosi tirato fuori da Dimatteo è solo l’ultima puntata di questa sceneggiata. Ma stavolta l’unico che non ha niente da perdere è l’ergastolano Salvatore Riina che però va in escandescenze. Senza il minimo sospetto di essere intercettato dice: “Farà la fine del tonno (riferendosi al giudice)”. Poi, pensando al domani, afferma: “L’ultimo (attentato) se mi riesce sarà più grosso, di loro non ho pietà”. Ora le spiegazioni non possono che essere due, o il vecchio boss è colpito da demenza senile o qualcuno vuole mestare nel torbido.

Opzione 1: Totò parlando di tutto e di tutti, dal Papa a Barbara Berlusconi, per poco non rivela anche la data e il luogo dell’attentato. Una novità nella storia della mafia. Somiglia più a un duello rusticano. Opzione 2: qualche mente raffinatissima (come li chiamava Falcone) vuole che il processo vada avanti senza mettere in mezzo galantuomini difesi dai corazzieri. Il cattivo Riina è sempre pronto e vivace. Ha solo ottantaquattro anni e può contare su tanti contatti con cui parla solo in codice. Così come rivelano i pizzini scritti in lingua fenicia dalla mano di Totò. Chi, se non una mente raffinatissima, può capire il fenicio?

Salvatore Recupero

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