«Anche un orologio rotto, due volte al dì, segna l’ora giusta», ed è così che dalla fogna di Netflix è da poco uscita la miniserie sulla vita di uno dei serial killer americani più sanguinari: Jeffrey Dahmer. Il docufilm ha generato però una serie infinita di proteste e controversie, il che sembrerebbe quantomeno bizzarro, visto che il crime è uno dei generi più prolifici e apprezzati. La polemica numero uno l’ha scatenata la comunità Lgbt, sconcertata dal fatto che Netflix avesse osato inserire Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer nella categoria arcobaleno, provocando così le ire degli intoccabili snowflake.
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di novembre 2022
Il passo indietro del colosso americano è stato immediato, nonostante la scena gay – in cui Dahmer si muoveva per adescare le sue vittime – non sia affatto rappresentata in modo oltraggioso. I gay afroamericani sono tutti personaggi positivi, adorabili (sfiorando il grottesco con il trio di omosessuali neri e sordomuti), pieni di compassione e di buoni sentimenti; il portiere della bath house è addirittura un eroe che caccia via Dahmer dopo aver trovato due giovani svenuti nelle camere da letto. (In realtà sappiamo che le cose andarono diversamente: ci vollero infatti ben dieci vittime – drogate, presumibilmente abusate e poi abbandonate ancora in vita dal futuro serial killer – prima che i responsabili del locale inserissero il nome di Jeffrey nella lista dei clienti indesiderati).
Il caso Dahmer
Lo stesso discorso vale per le accuse di razzismo, sia per quanto riguarda Dahmer – immaginato dal pubblico antirazzista come un membro del Kkk e che semplicemente non stanno in piedi, dato che le sue preferenze razziali e sessuali precedevano l’impulso omicida – sia per quanto riguarda il distretto di polizia che si occupò del caso. Se non vi sono dubbi sul fatto che la…