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Autarchia calcistica: il Piacenza degli italiani

by Marco Battistini
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Roma, 9 mag – C’è un filo rosso, anzi biancorosso, che lega indissolubilmente Roma all’Italia. Se da una parte autori, pensatori, ricercatori e scrittori hanno già dedicato la meritata attenzione all’argomento, oggi vogliamo darvi una profana rilettura in chiave calcistica. Per farlo dobbiamo tornare al 218 a.C. quando i romani ebbero l’esigenza di costruire un avamposto nel settentrione della penisola italica. La prima colonia padana – cinquantatreesima romana – fu edificata tra il Po e il suo affluente Trebbia. Una posizione strategica che garantisse il controllo del territorio circostante.

Fondata quindi per ragioni militari, col tempo Placentia diventa un fiorente snodo commerciale lungo la Via Emilia. Molti secoli dopo (1848) Piacenza è la prima città in cui – con un plebiscito pressoché unanime – si vota l’annessione a quel Regno di Sardegna che solo 13 anni più tardi proclamerà la nascita del Regno d’Italia. Da qui l’appellativo di Primogenita e l’assegnazione, nel 1941, della medaglia d’oro per le azioni “altamente patriottiche compiute nel periodo del Risorgimento”.

Piacenza Calcio: una squadra sanamente italiana

I destini dell’Italia si sono quindi sviluppati anche tra Roma e l’Emilia. Non è infatti un caso che sul petto dei giocatori emiliani ci sia la lupa capitolina, emblema dell’Urbe. Quella che diventerà simbolo per eccellenza dell’autarchia calcistica è fondata nel 1919 – altra “casualità” storica? – dalla fusione tra Giovine Italia e UFC Piacenza, squadre formate prevalentemente da studenti.

Le vicende dei biancorossi si evolvono tra il campionato cadetto e la terza serie. Almeno fino all’estate del 1983, quando Leonardo Garilli, industriale nel ramo degli idrocarburi, rileva la società appena retrocessa in C2. Al titolare della Camuzzi, ex azienda leader nella distribuzione del gas metano, bastano pochi mesi per festeggiare il primo successo calcistico, ossia l’immediato ritorno in C1. E’ l’inizio del periodo d’oro: da neopromossi gli emiliani sfiorano subito il salto in serie B, che infatti non tarda ad arrivare (1987).

Gli anni della Serie A

La filosofia della società è chiara: si punta forte sul vivaio e in particolare sull’italianità. E’ lo stesso ingegner Garilli che nei primi anni ‘90 traccia la rotta “la nostra struttura non ci permette di andare in giro per il mondo a scoprire talenti. Il Piacenza non vuole dipendere da nessuno e stiamo bene con i nostri giocatori italiani”. Ribadisce il concetto Gigi Cagni, l’allora allenatore dei lupi: “Parlo solo bresciano, sprecherei tempo a spiegarmi con gli stranieri”.

Leggi anche – Calcio e imprenditori: un binomio tutto italiano da preservare

Un decennio esatto – e tre categorie scalate – è il tempo impiegato da Garilli per regalare alla sua città una storica promozione in serie A, che arriva in quel di Cosenza, grazie al successo esterno nell’ultima giornata della stagione 1992/93. Nei successivi 10 campionati la massima serie è di casa per ben 8 volte. Fino al 2003, quando dopo una generosa ma sfortunata annata i tifosi biancorossi salutano per l’ultima volta la maggiore competizione nazionale. Nel mezzo tante salvezze e tre grandissimi bomber delle giovanili lanciati nel grande calcio: Filippo Inzaghi, suo fratello Simone e Alberto Gilardino.

Un nefasto cambio di rotta

La battaglia di Garilli per il Piacenza degli italiani non viene portata avanti dal figlio Fabrizio, che nell’estate del 2000 subentra al fratello Stefano, quest’ultimo presidente in carica dal 1997 in seguito all’improvvisa morte del padre. La stagione 2001/02 è infatti un punto di non ritorno in quanto viene ingaggiato per la prima volta nella storia biancorossa un calciatore allogeno, il brasiliano Matuzalem. Vuoi per casualità, vuoi per punizione divina, una volta “passato lo straniero” per i biancorossi è iniziato un lungo declino. Seguirà, qualche anno dopo, il fallimento e la successiva ripartenza dal campionato regionale di Eccellenza.

Si sgretola così il romantico baluardo della squadra che fino ad allora si era opposta attivamente ai dogmi imposti dal calcio – e del mondo – moderno. Peraltro già pesantemente condizionato a metà anni ‘90 dalla sentenza Bosman. Al tempo – luglio 2001 – su Repubblica già si incensava “la nuova filosofia del nuovo calcio” anticipatrice dell’odierna cancel culture in quanto “i simboli e le tradizioni sono fatte apposta per essere cancellate”.

Chissà cosa ne pensano in merito i tifosi del “Piace”, che quest’anno hanno festeggiato una sudata salvezza nel campionato di Lega Pro. Dal canto nostro sappiamo che radici profonde non temono i giorni di tempesta. Per quello che ha rappresentato ci speriamo ancora, in un Piacenza nuovamente tra i grandi, in un Piacenza nuovamente italiano.

Marco Battistini

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