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La scuola italiana dei portieri, un gioiello da rivalorizzare

by Marco Battistini
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Roma, 7 ago – Ci sono un francese, uno sloveno e un polacco. L’italiano non c’è, o meglio: è a Parigi, dove ha appena passato una stagione a scaldare le panchine transalpine. Nel paese di Zoff e Buffon le tre principali candidate allo scudetto – Milan, Inter e Juventus – affideranno la titolarità della propria porta a un profilo straniero. Come le strisciate, anche nella capitale: i numeri uno di Roma e Lazio saranno due portoghesi, Rui Patricio e Maximiano.

L’evoluzione” del ruolo

Nel corso degli anni il ruolo dell’estremo difensore si è trasformato. Sull’esempio sudamericano uno dei primi in Europa a “lavorare” sui piedi dei portieri è stato Guardiola. In Italia, con risultati decisamente differenti, Sarri. Particolari non da poco: il calcio dell’America latina ha un concetto di pressing diverso dal nostro, il miglior Barcellona di sempre schierava tra i pali Victor Valdes. Più a suo agio con gli scarpini rispetto ai guanti. Ancora oggi l’impostazione sistematica del gioco dalla linea di fondo è una “moda” che all’interno dei nostri stadi è soggetta (spesso e volentieri) ad assurde figuracce.

Portieri, metodi di lavoro

In una recente intervista Alessandro Nista – ex preparatore di Juventus, Inter e Napoli – ha spiegato come la scuola italiana si stia adeguando alle richieste degli allenatori. Che prediligono sempre di più la costruzione dal basso. Se fino a pochissimi anni fa veniva privilegiata la caratteristica del ruolo (volgarmente, quella del parare), oggi si curano anche la tecnica podalica e il lavoro con il resto del gruppo. Aspetti che possono fare la differenza tra chi esce da un settore giovanile piuttosto che da un altro. Non una questione di qualità, ma di metodologia lavorativa. A cui si aggiunge il tarlo esterofilo.

Alternanza o gerarchia?

Quello che per decenni è stato un punto di forza di tutto il movimento nazionale – ad esempio nello sfortunato mondiale del ‘98 con Peruzzi infortunato si presentarono comunque Pagliuca, Toldo e un giovane Buffon – andrebbe semplicemente rivalorizzato. In ottica azzurra l’aver potuto contare per quasi un ventennio su chi – a lunghi tratti – è stato il miglior interprete del mondo (l’attuale capitano del Parma) ha, per così dire, nascosto la polvere sotto al tappeto. Situazione che ora si ripropone con Donnarumma, unico punto fermo dell’Italia 2.0 di Mancini.

Tattica, tecnica, doti atletiche. In un pallone che cambia ci sono capisaldi inossidabili. Come la questione gerarchica in un ruolo così particolare e fondamentale – vedi il discorso Nazionale. Tornando alle società: in Italia il dualismo tra i pali non ha mai davvero funzionato. Un esempio su tutti l’alternanza napoletana tra i pur validi Ospina e Meret. Non fa testo l’esperienza juventina di qualche stagione fa, in quanto i bianconeri erano una squadra nettamente superiore alla concorrenza.

Italia, terra di portieri

Metodologia di lavoro, definizione dei ruoli, preferenza nazionale – quest’ultima assente ingiustificata. Infatti, tra le sette che parteciperanno alle coppe, solamente Fiorentina (Gollini) e Napoli (Meret, ma mentre scriviamo si rincorre più di una voce sul suo futuro) schiereranno un portiere italiano. E dire che il materiale su cui lavorare – a partire da Carnesecchi – ci sarebbe. Ma servono fiducia e presenze su presenze in palcoscenici via via sempre più importanti. L’Italia rimane terra di portieri: bisognerebbe solo togliere certi paraocchi e ritrovare il coraggio.

Marco Battistini

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