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Lincoln: il vero volto di un presunto eroe antischiavista

by La Redazione
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assassination-large lincolnWashington, 15 apr – La sera del 14 aprile del 1865, nel Ford’s Theatre di Washington, veniva compiuto l’attentato ai danni del 16° Presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln, morto il mattino del 15 aprile dopo alcune ore di agonia. Il Presidente, sicuramente un grande politico ed un grande oratore, è noto ai più per aver posto fine alla schiavitù in America, prima con il Proclama di Emancipazione del 1863, fatto in piena Guerra Civile, che liberava gli schiavi negli Stati dell’Unione, poi tramite la ratifica del XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America nel 1865, passato per pochissimi voti al Congresso, grazie al quale fu abolita la schiavitù in tutti gli Stati Uniti.

Il dibattito sulla figura dell’avvocato di Springfield è ancora molto acceso, nonostante sia passato un secolo e mezzo dalla sua morte, e la sua figura di portavoce e salvatore della classe sfruttata degli schiavi afro-americani oggi viene utilizzata a fini propagandistici, assurta a simbolo della pace e della libertà. Niente di più demagogico e strumentale sarebbe potuto nascere dal ventre della Nazione che più di tutte utilizza la bugia tramite il cinema per definire ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Lincoln, la cui figura è tornata recentemente alla ribalta grazie all’omonimo film di Spielberg, nel quale abbiamo un chiaro esempio di un “Vecchio Abe” che crede fortemente nell’uguaglianza fra bianchi e neri, in realtà tutto era meno che antirazzista ed egualitario.

Anche sorvolando sul fatto che pure lui, come la maggior parte delle famiglie benestanti dell’epoca, aveva degli schiavi al suo servizio, vediamo come parlava il 21 agosto del 1858 ad Ottawa, in Illinois: «Non miro affatto a introdurre l’eguaglianza sociale e politica fra la razza bianca e la razza nera. Fra le due vi è una differenza fisica che, a mio avviso, impedirà per sempre che esse vivano assieme in condizioni di eguaglianza perfetta; e nella misura in cui diviene una necessità […], sono favorevole al ruolo di superiorità che deve svolgere la razza a cui appartengo. Non ho mai detto il contrario».

Due anni dopo sarebbe stato eletto per la prima volta Presidente, battendo i tre candidati Democratici avversari, e ottenendo, nonostante fosse l’unico candidato Repubblicano, solo il 39,8%. Questa vittoria non piacque a 11 Stati del “soleggiato” Sud, che proclamarono, legittimati dal X emendamento degli Stati Uniti, l’indipendenza dall’Unione, dando vita alla Confederazione degli Stati d’America, con presidente provvisorio Jefferson Davis. Questo atto di forza portò Lincoln, nel suo discorso inaugurale del 4 marzo 1861, ad avere un atteggiamento ambiguo nei confronti degli Stati nei quali la schiavitù era consentita dalla legge (tra cui alcuni stati “nordisti”), ambiguità che lo portò a dichiarare: «Non ho alcuna intenzione, diretta o indiretta, d’interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati in cui essa esiste».

Queste sue posizioni, tuttavia, gli consentirono, il 12 aprile 1861, di dichiarare “ribelli” i secessionisti e di invadere dei territori che avevano scelto di autodeterminarsi, non in nome dell’uguaglianza fra bianchi e neri, ma in nome dell’Unione e della propria autoconservazione. In una lettera che il presidente inviò a Horace Greeley, redattore del New-York Tribune, possiamo infatti leggere che “ciò che voglio è salvare l’Unione. […] Il mio obiettivo primario in questa lotta è quello di salvare l’Unione e non quello di conservare o eliminare la schiavitù. Se potessi salvare l’Unione senza dover liberare un solo schiavo, lo farei e se la potessi salvare liberando tutti gli schiavi lo farei. Se potessi salvarla liberandone alcuni e abbandonandone altri farei anche questo. Ciò che faccio riguardo alla schiavitù, e per la razza di colore, lo faccio perché penso che aiuti a salvare l’Unione e ciò che non faccio, non lo faccio perché non credo che serva a salvare l’Unione”.

Alla luce di queste sue affermazioni, è facile comprendere perché invase i “territori di Dixie”, il Sud: per una questione economica. Ad un nord industrializzato e fortemente protezionista, non si poteva contrapporre un Sud agricolo e liberale, che esportava le materie prime in tutta Europa, specialmente in Regno Unito e Francia; sarebbe stato meglio averli in un’unica nazione. In più la liberazione degli schiavi, e la loro conseguente mobilità, avrebbe incrementato così tanto la domanda di lavoro, da poter ridurre drasticamente i salari.

Vi riconoscete in questo scenario?

Guglielmo Pannullo

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