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Dall’euro al fisco: così Confindustria tradisce sé stessa (e l’Italia)

by Filippo Burla
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boccia confindustriaRoma, 22 apr – In ultimo venne il dibattito sull’euro, ospitato dalle colonne del Sole 24 Ore su impulso di Luigi Zingales che, fiutando l’aria di M5S al potere, comincia a fare un pensierino alla poltrona di ministro dell’Economia in un ipotetico governo grillino. Dibattito, quello a cui vorrebbe dar spazio il quotidiano di Confindustria, tuttavia già azzoppato in partenza dato che il direttore ad interim Guido Gentili si è subito affrettato a chiudere ogni porta all’ipotesi di uscita dall’euro, di fatto azzoppando ogni velleità dell’economista della Chicago Booth.

Nulla di nuovo sul fronte moneta unica, d’altronde il foglio degli industriali non ha mai fatto mistero – dal ‘Fate presto’ di montiana memoria in avanti – di appoggiare incondizionatamente l’esperienza dell’euro, concedendo al più l’ipotesi di generiche “modifiche dall’interno” o palliativi di tal sorta. Posizione che ricalca appieno il solco tracciato dalla stessa Confindustria, che mai ha mosso alcuna critica al sistema valutario dell’Ue. Questo nonostante gli evidenti problemi con cui l’Italia si sta confrontando, dai guai in termini di esportazioni causati da una moneta decisamente sopravvalutata per la nostra economia al disfacimento della domanda nazionale dovuta alla svalutazione interna necessaria per compensare squilibri altrimenti non risolvibili, dalla conseguente recessione da cui non riusciamo compiutamente ad uscire alla collegata crisi bancaria. Uno scenario da incubo, nel quale sono le stesse imprese a soffrire enormemente: dal 2000 ad oggi abbiamo perso oltre il 15% della produzione (in Germania, sia detto en passant: +25%), numeri da deindustrializzazione in atto e che nessuna stabilità riesce ad invertire. Né quella dei tassi d’interesse bassi, né quella fiscale, con Confindustria che non nega l’appoggio all’aumento dell’Iva – nuova strada per riprendere ancora una volta la politica di svalutazione interna, per candida ammissione – che deprimerà ulteriormente la domanda interna, ancora una volta in cambio della riduzione del costo del lavoro. Si chiama politica dei piccoli passi: una concessione qui, un aiuto di là, mentre si marcia (con tutta calma) verso l’abisso.

Come si spiega allora che, di fronte a questo sfacelo, l’associazione di viale dell’Astronomia continui a porsi monoliticamente pro-euro? Una prima motivazione la si può individuare nelle politiche del lavoro degli ultimi vent’anni. Confindustria, in estrema sintesi, ha accettato di sacrificare un nostro punto di forza come le esportazioni in cambio delle varie leggi sulla flessibilità, dai pacchetti Treu e Biagi fino a Jobs Act. La crisi è così stata in parte scaricata sulle spalle dei lavoratori, con un beneficio durato però poco e che non potrà continuare in eterno come già stanno a dimostrare i nefasti effetti della riforma targata Renzi-Poletti. La seconda spiegazione esula dal politico e scende più nel tecnico. Era il per niente lontano 1991 quando l’Italia raggiunse il suo picco: quarta potenziale del mondo. La Cina non era ancora vicina, è vero, ma Confindustria per quanto possibile fungeva da motore propulsivo di una crescita che negli anni successivi non avremmo più visto. Un motore che a stretto giro ha cominciato però a girare a vuoto, trasferendo continuamente le produzioni all’estero e avviando la progressiva trasformazione dell’economia italiana in soggetto più esposto sul versante delle importazioni. Se chi rappresenta l’industria rappresenta gli interessi (anche e soprattutto) degli importatori, potrà mai dunque esimersi dalla difesa d’ufficio di una moneta che garantisce le loro attività?

Domanda retorica, ma alla quale molti imprenditori hanno già dato risposta. Perché non solo abbiamo perso la produzione industriale, ma la stessa Confindustria è in grave crisi: da Marchionne in avanti, molti fra grandi e piccoli hanno già abbandonato la nave, che è in continuo calo di iscritti. Nel solo Veneto, un tempo cuore della manifattura tricolore, si parla in media del 20%. Ma sono migliaia e migliaia, in tutta Italia, gli iscritti che dopo anni di sofferenze nel rapporto con l’ente oggi guidato da Vincenzo Boccia hanno deciso di gettare la spugna.

Filippo Burla

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