Milano, 21 mag – In uscita dalla sala, la prima reazione sdegnata di una signora sulla sessantina – collana di perle e orecchini, dolcevita rosa ed occhiali da vista in titanio, di quelli superleggeri – è stata: “Non mi piacciono i film di Garrone. I suoi personaggi sono brutti (…). Non è possibile che esistano luoghi così!”. Il riferimento era al cosmo della “Magliana secondo Garrone”, panorama post-apocalittico del suo ultimo Dogman, in sala proprio in questi giorni.
Una Magliana che Magliana non è. Trattasi infatti del Villaggio Coppola, conosciuto anche come “Pinetamare”. Esempio vivo di natura morta del litorale Domizio, sversatoio umano di disumanità ed iniziativa “artistica” dei fratelli Coppola, due palazzinari dell’Agro aversano (Casal di Principe) che, come d’uso per l’epoca, seppero ridisegnare il volto, tumefacendolo, di un’area un tempo bellissima della Campania.
È su questo sfondo che si muovono i n(m)ostri. I fatti, come noto, sono quelli del “Canaro della Magliana”. La vera storia di un piccolo (letteralmente) traffichino della periferia romana nonché proprietario di un negozio di toilettatura per cani – Pietro De Negri, interpretato magistralmente da Marcello Fonte – salito alla ribalta della cronaca nera alla fine degli anni ‘80 per la particolare efferatezza con cui si fece artefice dell’omicidio dell’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci: torturato, mutilato a più riprese e infine arso.
La storia è perfetta, facile intuirlo, per il cineasta balzato agli onori del grande pubblico per Gomorra, ma soprattutto per l’autore de L’imbalsamatore (2002) e Primo Amore (2004), vere perle del regista romano. È con queste due pellicole che è più facile tracciare una “linea di sangue”. Garrone si fa ancora una volta artefice di quel genere neo-noir, post-noir, o meglio ancora noir-neo-realista, che è stato tra i primi a portare sul grande schermo. Non lasciandosi ingolosire dal voyerismo sensazionalistico che tanti, fortunatamente non tutti, si aspettavano da una storia così truculenta, il regista spinge su quello che sa fare meglio: mettere sotto il microscopio corpi e volti deformi, sguardi viziati e persi, specchi di anime non buone né malvagie, ma semplicemente reali. È per questo apprezzabile che il regista abbia deciso di cambiare nomi, luoghi e dettagli – soprattutto quelli scabrosi, nel film appena accennati – e mantenere invece l’occhio puntato su Pietro/Marcello – il cui interprete è stato non a caso vincitore della Palma d’Oro come miglior attore a Cannes.
Alla signora, che ringraziamo per essersi fatta portavoce del suo punto di vista da quartiere Coppedè, rispondiamo che a loro – ai buoni, ai belli – auguriamo di vivere per sempre e che, come cita l’epitaffio che Duchamp fece incidere sulla propria tomba, “d’altronde sono sempre gli altri che muoiono”.
Davide Trovato
Dogman, la Magliana post apocalittica di Garrone
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