Roma, 23 feb – “Questo film non è nemmeno ammiccante, è una chiara apologia della droga. Ci offre un mondo come se fosse normale, e non lo è. Frank Sinatra era drogato ne L’uomo dal braccio d’oro, poi incontrava Kim Novak che lo salvava. Qui ci si dice che la salvezza sta nell’eroina”. Il commento non è tratto dal bollettino di una parrocchia, ma dalla recensione che MyMovies fa di Trainspotting, il film diretto da Danny Boyle e uscito nelle sale inglesi il 23 febbraio del 1996 (in Italia sarebbe arrivato il 4 ottobre). Tratto dal romanzo omonimo uscito tre anni prima e scritto dall’ex tossico scozzese Irvine Welsh, la pellicola sarà presentata fuori concorso al 49º Festival di Cannes del 1996.
Al centro della storia, cinque giovani di Edimburgo, Renton, Spud, Sick Boy, Begbie e Tommy: tre sono eroinomani, uno è un alcolizzato attaccabrighe, l’ultimo è l’unico bravo ragazzo, e infatti è l’unico che morirà. Malgrado squat degradati, gente malfamata, un neonato lasciato morire nella sua culla, il bravo ragazzo di cui sopra che finisce in un pozzo senza fondo di disperazione, il film è una commedia agrodolce, con tanto di esilaranti ma triviali escamotage scatologici che neanche Pierino nei suoi anni d’oro. È come vedere Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino con le risate registrate in sottofondo. Una commedia sull’eroina? Sì, negli anni ’90 si poteva: era l’epoca delle droghe sintetiche, come gli anni ’80 erano stati quelli della cocaina. Per tornare ai fasti mortiferi dell’eroina bisognava andare agli anni ’70, che all’epoca, come del resto oggi, sembravano lontani e in fondo più innocui di quanto non fossero stati in realtà. E così, nel ’96, un film su gente che si buca poteva anche essere pop. Di eroina si moriva ancora, ma la cosa non era più percepita come un’emergenza sociale.
Trainspotting, in effetti, ha influenzato l’estetica degli anni ’90 in modo indelebile, forse più di Pulp Fiction, che era uscito due anni prima e che conteneva un altro celebre “buco”, quello di John Travolta, ma che ci ha messo un po’ ad entrare nell’immaginario. Fu davvero apologia della droga? In realtà… sì. A meno di non voler tirar fuori pipponi sociologici per spiegare frasi come: “Prendete l’orgasmo più forte che avete mai provato. Moltiplicatelo per mille. Neanche allora ci siete vicini”. Un elogio che, per carità, a volte proponeva anche un salutare ritorno alla realtà rispetto al discorso perbenista, ben intenzionato ma senza la minima presa sul reale. E così ci voleva qualcuno che lo dicesse: “La gente pensa che si tratti di miseria, disperazione, morte, merdate del genere, che pure non vanno ignorate. Ma, quello che la gente dimentica è quanto sia piacevole, sennò noi non lo faremmo”. Cosa che indubbiamente andava saputa. “È ridicolo – disse il regista in un’intervista a chi lo accusava di aver fatto l’apologia di uno stile di vita sbagliato – la gente non fa uso di droga per i film che guarda, ma per come si mettono le cose nella loro vita, con le ragazze, il gruppo di amici. E tutto quello che si può fare è dire la verità: il motivo per cui la gente si fa di eroina è che ti fa sentire tremendamente bene”.
Se non c’era più la denuncia accorata e strappalacrime, in Trainspotting mancava del resto anche tutta la fuffa sulle “porte della percezione” e puttanate simili. Ci si limitava a dire che se ti buchi non hai il problema di pagare le bollette o ascoltare la ragazza che scoccia: “Quando ti buchi hai una solo preoccupazione: farti. E quando non ti buchi, di colpo, devi preoccuparti di tutto un sacco di cazzate: non hai i soldi, non puoi sbronzarti. Hai i soldi, bevi troppo. Non hai una passera, non scopi mai. Hai una passera, rompe le palle. Devi pensare alle bollette, al mangiare, e a qualche squadra di calcio di merda che non vince mai, ai rapporti umani, e tutte quelle cose che invece non contano quando hai una sincera e onesta tossicodipendenza”. Una ricerca del tepore privo di responsabilità che in fondo era molto borghese e vanificava un po’ il messaggio del monologo iniziale, il celeberrimo “Choose life. Choose a job. Choose a career…”, che poneva esplicitamente l’eroina come alternativa al conformismo, con argomenti non dissimili da quelli che tre anni dopo avrebbe usato Fight Club, ma stavolta con il combattimento al posto della droga. Non era esattamente la stessa cosa.
Adriano Scianca