Roma, 9 set – “Li mortacci tua!”, “Li morti toi!”: la prima una celebre espressione romana, la seconda salentina. Entrambi sono anatemi lanciati con l’intento di maledire e offendere i defunti altrui e, anche se oggi è entrato nell’uso comune proferirli per esprimere stupore o semplicemente per enfatizzare un concetto col sorriso sulla faccia, il retaggio storico-culturale di queste due realtà linguistiche, romano, etrusco e greco, ci rammenta un’importanza assoluta attribuita alla morte e alla memoria dei morti.
Siamo dovuti partire da un insulto profano per arrivare a riflettere su qualcosa di sacro perché, per quanto sia banale, va ricordato che un tempo non troppo lontano i nostri defunti godevano d’una sacralità oggi in grossa parte consumatasi. La ritualità di mediterranea memoria ha condizionato per secoli le azioni e il pensiero dei popoli nei confronti della morte.
Nella Roma antica sette festività commemoravano gli antenati di una famiglia, compresa la Parentalia che si teneva dal 13 fino al 21 febbraio per onorare gli avi, e la Lemuria, che si teneva nei giorni del 9, 11 e 13 maggio, quando il Pater Familias placava gli spettri (larvae) con l’offerta di doni. Presso i Greci era comune, come segno di lutto, l’obbligo di indossare abiti scuri oppure bianchi, non era permesso portare gioielli o altri ornamenti, né usare profumi o cosmetici. I capelli dovevano rimanere sciolti oppure essere tagliati. Il periodo prescritto per questo cordoglio pubblico variava dai trenta ai centocinquanta giorni. Per gli Etruschi le famose tombe a camera, costruite per ospitare intere generazioni accanto al loro capostipite, rappresentano un evidente collegamento tra il regno dei vivi e quello dei morti. I primi rituali della religione etrusca s’incentravano proprio sul ricordo degli antenati, i quali venivano venerati come spiriti protettori. I primi luoghi di culto furono quindi la casa e la tomba, tanto che fra il VII e VI sec. a.C. il culto domestico delle famiglie aristocratiche inizia ad avere una forma pubblica, ed erano chiamati a partecipare anche gli abitanti del territorio sul quale la famiglia aristocratica esercitava il proprio potere. “All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne – confortate di pianto è forse il sonno – della morte men duro?” Si domandava Ugo Foscolo nel suo Dei Sepolcri, e ancora: “Non vive ei forse anche sotterra, quando – gli sarà muta l’armonia del giorno, – se può destarla con soavi cure – nella mente de’ suoi?”
Come sembrano lontane, oggi, tutte queste pratiche e cogitazioni, nell’era dove le vedove sono una specie in via d’estinzione e gli scavi di Pompei crollano regolarmente, destando poco meno d’una silenziosa quanto inutile indignazione generale. Genitori e maestre propinano ai giovani le peggiori banalità piuttosto che condurli sulla tomba del milite ignoto o sui sacrari dei caduti della prima guerra mondiale. Ne scaturisce quindi una concezione distorta della morte e di conseguenza anche della vita. Il trapasso viene quasi unicamente relegato e sminuito, o semplicemente si cerca di sfuggire quotidianamente dalla morte con sbadati rimedi con cui si vorrebbe gabbare la vecchiaia.
Un esempio magistrale di dialogo con gli Antichi, coi sacri maestri Ovidio, Tibullo, Dante e Petrarca, è la lettera di Machiavelli a Francesco Vettori: “E rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.” Nel periodo più buio della sua vita Machiavelli trova conforto nell’eco dei padri predecessori. Dall’oltretomba, coi loro esempi virtuosi, indicano ancora dopo secoli la retta via e danno forza al vivo in cerca di risposte.
L’uomo contemporaneo ha tutt’oggi bisogno di assimilare, con umiltà, l’identità sacra degli avi, e il rispetto per i morti è un passaggio obbligato. Possiamo anche ridere in faccia alla vecchia signora e gridare come i falangisti spagnoli un irriverente “Viva la muerte!”, l’importante è solo non ignorare, non essere indifferenti nei confronti di fato e morte, perché solo chi ha il coraggio di rimirarsi nel passato può giungere a costruirsi presente e futuro.
Alberto Tosi