Roma, 25 nov – Frank Castle, “il Punitore”, ha finalmente esordito in un serial tutto suo su Netflix. Televisivamente il battesimo era già avvenuto nella seconda serie di quello dedicato a Daredevil, in cui il vigilantes di New York compariva in quasi tutti gli episodi, in contrapposizione all’etica dell’eroe-diavolo di Hell’s Kitchen che neutralizza il crimine, ma aborre l’omicidio.
Da sempre l’ex marine, diventato giustiziere dopo aver assistito all’omicidio di tutta la sua famiglia, è uno dei personaggi più violenti e discussi della storia dei fumetti. Di origini rigorosamente italiane (Castle, si scoprirà in una saga “siciliana”, sta per Castiglione), il personaggio fu creato sulla testata fumettistica dell’Uomo Ragno. Per la precisione dallo sceneggiatore Gerry Conway e dai disegnatori Ross Andru e John Romita Sr. nel n.129 del febbraio ’74, di “Amazing Spider-Man”. In Italia, il 1 gennaio 1976, per l’Editoriale Corno.
Ripercorrere in sunto tutte le vicissitudini del personaggio, attraverso i decenni, sarebbe impossibile. E, nonostante, da anni non goda più di una sua testata, una classifica stilata nel 2011 dalla Imagine Games Network ha stabilito che The Punisher è il ventisettesimo personaggio dei comics più amato di tutti i tempi. Frank Castle non ha super-poteri e non è neanche un super-eroe in costume. È, anzi, un vigilante spietato, assillato dalla volontà di vendetta. Che non si ferma davanti alla “punizione” degli assassini della propria famiglia ma si spinge, negli anni, fino ad una guerra infinita e interminabile contro ogni tipo di criminale. Spingendolo ad uscire da New York lungo tutto il territorio nazionale e poi anche, addirittura, all’estero.
Sullo schermo, con alterne fortune, già aveva goduto di vari “adattamenti”. Nel 1989, ci aveva provato Mark Goldblatt, facendo vestire i panni di The Punisher a Dolph Lundgren, all’epoca attore in grande spolvero degli action movies. Ma la totale infedeltà rispetto alla trama del fumetto e le numerose critiche portarono al ritiro immediato del film dalle sale e alla distribuzione direct-to-video. In Italia, uscì addirittura con il fuorviante titolo de “Il Vendicatore”. Nel 2004 ritentò, più in grande, la Lions Gate Entertainment, a distribuzione Columbia Tristar. Il film fu diretto da Jonathan Hensleigh e Thomas Jane vestiva la corazza in kevlar con il teschio bianchio. Come nel precedente film, Castle non era un Marine dei Berretti Verdi bensì un poliziotto. Il film ebbe un buon riscontro ai botteghini ma un possibile sequel rimase congelato e non si realizzò mai. Nel 2008, sempre la Lions Gate, su produzione diretta della Marvel, lanciò Punisher – War Zone, per la regia di Lexi Alexander e Ray Stevenson nei panni del Punisher. Si trattò di un vero e proprio reboot, senza consequenzialità cronologica con il capitolo precedente. In questo film, maggiormente aderente alla storia originale, comparve anche uno dei primi, tradizionali, nemici del protagonista: Jigsaw, “faccia di puzzle”, un criminale sfigurato dallo stesso Castle. Nonostante il film fosse migliore rispetto ai precedenti si rivelò comunque un flop al botteghino, convincendo la Marvel ad accantonare ogni possibile velleità di seguito, benché fosse nelle intenzioni iniziali.
A “rivoluzionare” tutto è arrivata la Netflix, famigerato canale “on demand” che ha aperto infinite possibilità al mercato delle fiction e dei film. Con la caratteristica particolare di lanciare i telefilm a serie completa di episodi e non settimanalmente, puntata per puntata. In un piatto tanto “ricco” non poteva che infilarcisi subito la Marvel, ormai da anni coinvolta direttamente in ogni fase realizzativa dei propri prodotti per il piccolo e il grande schermo. Ideato e prodotto da Steve Lightfoot, il serial vede nel ruolo di The Punisher il già noto Jon Bernthal, lo Shane di “The Walking Dead”. E mescola personaggi di vari blocchi narrativi del fumetto: dall’hacker Micro, primo partner di Frank Castle e sua “spalla” per anni al nemico “classico” Jigsaw ( di cui sarà chiara la genesi solo nell’ultimo episodio).
La prima serie consta di 13 episodi della durata di quasi un’ora l’uno. Rimane l’origine del protagonista quale soldato, ma stavolta in Afghanistan e non in Vietnam: gli anni passano e bisogna adattare la narrazione. Per molti versi il telefilm è riuscito. Bernthal è visivamente e fisicamente una “incarnazione” perfetta del protagonista. Con il volto tormentato e segnato. Perennemente arrabbiato e imbronciato ma capace di sprazzi di sarcasmo amaro. Gli occhi iniettati di odio. Gli scontri sono un’orgia “grafica” di violenza, impossibile da riprodurre sui canali generalisti, per famiglie. C’è tutto ciò che ci si aspetterebbe da un giustiziere ossessionato dalla vendetta: cruenti scontri con armi da fuoco, brutali corpo a corpo sanguinolenti e disturbanti, armi da taglio, lacerazioni, un copiosissimo bodycount.
Eppure qualcosa si perde. Troppi dialoghi a rallentare e appesantire l’azione. Troppa attenzione alla detection e troppa concentrazione su una trama “cronologica” continuativa. Con gli episodi, intrecciati gli uni agli altri, a dipanare una trama che porta a compimento eventi del passato e collegati all’omicidio della sua famiglia. Laddove, invece, il fumetto si contraddistingueva per blocchi narrativi a sé stanti in cui, di volta in volta, lo scopo era soltanto annientare i “mobster” di turno: che fossero mafiosi italiani, yakuza, russi, gangster afroamericani, gang di motociclisti e chi più ne ha più ne metta. Forse troppo Frank Castle e troppo poco the Punisher nel telefilm.
Ma quando, negli ultimi episodi, indossa il giubbetto di kevlar e dipinge il teschio, terrore di tutti i criminali della Grande Mela, si respira tutta l’atmosfera delle saghe fumettistiche. Che fossero quelle degli esordi, a firma Grant – Zeck o quelle più venate di humour nero, postume, a firma Ennis-Dillon. Il Punitore è una macchina da guerra, forgiata nell’inferno delle tante guerre “sporche” e non convenzionali condotte dagli Stati Uniti d’America. Pronto a riversare la sua vendetta su chiunque sia “colpevole”. È un uomo solitario, incapace ormai di provare amore o qualsiasi altra emozione che non sia una fissità patologica per la vendetta. Un uomo tormentato e morto interiormente, un mero sopravvivente che non ha più niente da perdere. Amato da molti, soprattutto dalla gente della strada e odiato da benpensanti buonisti e criminali. Così come, nella realtà, tacciato più volte (immotivatamente) di essere “fascista”, in quella specifica accezione che negli Usa tanto abbonda ed è abusata. Quando le sue storie arrivarono in Italia, nel luglio dell’89, per la Star Comics, furono appunto immediate le polemiche e le accuse di troppa violenza o di presunto “fascismo” latente, rappresentato da quel vigilante reazionario che, invece di seguire le vie della legge, si faceva giustizia da solo. Polemiche sterili e inutili, come sempre.
Tornando alla fiction, una sola stagione è poco per poter formulare un giudizio. Resta, appunto, un parere interlocutorio. Una (mezza) delusione e la speranza di future potenzialità. Restando, però, strettamente nel solco della “filologia” fumettistica. Non male, si ribadisca. Ma si può fare di meglio. Sperando ci venga restituito tutto lo spirito più cinico e “politicamente scorretto” di uno dei personaggi più discussi e ambigui della storia dei fumetti.
Maurizio L’Episcopia