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Game of Thrones, Trump e il Papa: sociologia critica del “Muro”

by Adriano Scianca
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muro barriera confineRoma, 1 apr – Una delle tante schizofrenie occidentali è quella che riguarda il concetto di “muro”. Mentre il Papa, gli intellettuali, i i politici, i twittaroli globali non fanno che deplorare lo spuntare di nuovi muri qua e là per le frontiere di mezzo mondo, milioni di spettatori si recano al cinema per emozionarsi di fronte a un film sino-americano dall’inequivocabile titolo di The Great Wall. La trama kolossal vede due mercenari europei recarsi in Cina con la missione di recuperare la misteriosa “polvere nera”. Qui, dopo una serie di disavventure, finiscono per combattere al fianco dei cinesi contro dei mostri verdi, denominati Taotie, che ogni 60 anni minacciano il mondo degli uomini. La Grande Muraglia è stata eretta proprio per cercare di fermarli, con ogni mezzo. Tutta la struttura narrativa del film si basa sul pathos della difesa dall’invasore, misterioso e bramoso di carne umana. Presidiare il muro è il più alto compito che possa spettare a un uomo. “Noi non siamo uguali – dice ad un certo punto Tian Jing a Matt Demon nel film –perché noi siamo preparati a dare la vita per il nostro impero e per il nostro popolo. Voi no!”.

Mentre il film sulla Grande Muraglia spopola nelle sale, l’immaginario globale viene ridefinito da una delle serie tv più potenti degli ultimi anni, The Game of Thrones, la cui geografia si struttura attorno alla Barriera (The Wall, nella versione originale), la colossale fortificazione fatta di ghiaccio, neve e pietra, costruita nel Nord del continente occidentale, la cui idea è venuta a George Martin (lo scrittore che ha creato la saga) mentre era in visita al Vallo di Adriano. La struttura si estende per un totale di 480 km per 210 metri di altezza, anche se in alcuni punti arriva fino a 270 metri. Nella geografia della saga, oltre la Barriera vi sono gli Estranei. Non stupisce che Libération possa aver parlato, a riguardo, di una “geografia reazionaria”, nella misura in cui “c’è la rappresentazione di un mondo in cui, a differenza di oggi, i territori sono paralizzati e protetti dalle mura”. Ciò che tuttavia fa riflettere è il fatto che lo spettatore medio occidentale non abbia alcuna difficoltà a fantasticare sulla grande Barriera, per poi tornare, nella realtà “di veglia”, un fiero oppositore di ogni confine.

Anche rispetto ai muri della realtà, del resto, si può riscontrare un certo strabismo nell’indignazione collettiva. Durante l’ultima, vergognosa, Giornata del Ricordo, trascorsa tra l’indifferenza delle istituzioni e un loro attivo impegno negazionista, in pochi hanno ricordato che, in margine al dramma delle sue terre orientali, anche l’Italia ha avuto il suo muro della vergogna: parliamo della recinzione che, dopo il 1947, ha diviso in due Gorizia, regalando una parte della città alla Slovenia, allora parte del “paradiso socialista”. Insomma, i muri costruiti dai “buoni” fanno meno paura. Ci si può convivere tranquillamente. Quando non li si elogia apertamente, si fa comunque finta che non esistano e passa la paura. Basti pensare che l’Occidente ha allegramente fischiettato per decenni all’ombra dello stesso Antifaschistischer Schutzwall, la “Barriera di protezione antifascista” che per anni ha diviso Berlino (si noterà che i muri “accettati” hanno per lo più la funzione di dividere gli appartenenti ad uno stesso popolo, quelli “condannati” separano invece popoli diversi fra loro, e anche questo è significativo). Il muro di Trump invece no, quello entra di filato nell’immaginario dell’indignazione globale, grazie alla narrazione sapientemente orchestrata sul pazzo xenofobo col riporto deciso a terminare l’era dei diritti. Questione di narrazioni, appunto. Obama, per ragioni sostanzialmente epidermiche, era riuscito a imporre uno storytelling differente, motivo per il quale oggi nessuno si sogna di chiedergli perché, nel 2006, quando era senatore, votò assieme alla collega Hillary Clinton a favore del “Secure Fence Act” di George W. Bush, l’atto che avviava la costruzione di una barriera lunga circa 1.100 chilometri lungo un terzo del confine col Messico. I primi muri su quella frontiera erano iniziati a essere costruiti nel 1990, da Bush padre, ma i lavori terminarono nel 1993, poco dopo l’insediamento di Bill Clinton alla Casa Bianca. Il presidente democratico schierò anche quella che definì una “barriera umana” di agenti al confine col Messico, ma all’epoca di servizi preoccupati per l’innalzamento dei prezzi del margarita nei bar americani se ne videro pochi. Né si ricordano grandi proteste in merito giunte dal Vaticano, che invece oggi sembra in costante ansia per i progetti di Trump. Polemica che si trascina sin dalla campagna elettorale, nella quale l’allora candidato outsider repubblicano non si lasciò sfuggire una stilettata: “Il Papa ha grandi mura in Vaticano”. Ancora digiuno delle ragioni dell’ecumenismo, in effetti, il proto-trumpista Papa Leone IV, tra l’848 e l’852, innalzò attorno alla Santa Sede un anello lungo 3 km con 44 torri alte 14 metri per proteggere San Pietro dai saraceni che l’avevano saccheggiata nell’agosto dell’846. All’epoca l’idea di costituire un tavolo di discussione con i saraceni moderati non godeva di grande credito, chissà perché.

Sembra del resto che tuttora la Chiesa non guardi granché di buon occhio all’evento della storia italiana che con maggiore potenza ha visto attaccata la simbologia del muro e dell’isolamento: la Breccia di Porta Pia. Evidentemente l’incontro con l’altro cessa di essere arricchente, se lo fai con i bersaglieri. Tornando invece ai giorni nostri, ha fatto scandalo il muro voluto dal cattivissimo Orban in Ungheria. Ma bisogna ricordare che quando scoppiò quella polemica nell’Unione europea erano già state costruite delle recinzioni simili a quelle dell’Ungheria in Grecia, in Bulgaria e a Calais, in Francia. Inoltre altri paesi europei hanno costruito muri in seguito, senza subire rimproveri da Bruxelles: per esempio al confine tra Grecia e Macedonia, tra Austria e Slovenia, tra Croazia e Serbia. Per alcuni muri l’Ue si indigna, per altri no. Altri ancora li finanzia: attorno alle enclavi spagnole in Marocco di Ceuta e Melilla c’è una barriera alta tre metri, costruita negli anni ’90, e costata 30 milioni di euro pagati dall’allora Comunità Europea. Recentemente, la barriera (lunga 8 km a Ceuta e 12 km a Melilla) è stata portata fino a 6 metri di altezza, con il beneplacito dell’agenzia europea Frontex. Attendiamo che l’Ue cominci finalmente a rimproverare se stessa.

Adriano Scianca

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