Una «terza via» che attende ancora di essere espressa in tutte le sue potenzialità. Al netto dei tragici errori, si dovrebbe rileggere senza pregiudizi in sede storica l’esperienza fascista, per ripartire dagli spunti migliori che animarono quella stagione, densa di slanci culturali (si rilegga Il Ventennio degli Intellettuali di Giovanni Belardelli) e sforzi legislativi (pensiamo al Codice Civile). Non solo il corporativismo e la socializzazione, l’edificazione dello Stato sociale e una politica estera basata sull’«interesse nazionale», ma la costruzione di una «religione civile» nazionale, la fierezza dell’identità e il popolo inteso come «armonico collettivo». Quest’ultimo concetto voleva le masse inserite nello Stato sempre più concretamente “superando” la Rivoluzione Francese e le finzioni della democrazia delegata, irregimentandole in uno sforzo comunitario ed entusiasta che portò alla costruzione di infrastrutture e città come mai nella storia unitaria («il marmo che vince la palude» direbbe qualcuno). Temi che dovrebbero tornare all’ordine del giorno nell’attuale Italia vecchia e rassegnata, votata al suicidio culturale, economico, politico, dove si è arrivati a parlare di «migrazioni barbariche» sui libri di storia, invece che di «invasioni», per non urtare la sensibilità radical chich e favorire meglio la nostra scomparsa. L’impoverimento culturale sta accelerando la fine della sovranità italiana, quella ricordata ogni giorni dalla presenza di basi americane nella penisola e da vicende come quella dei Marò, e il cui recupero è invece un’esigenza vitale per chi ama il tricolore. Nulla è perduto, la storia è sempre «aperta» a ogni possibilità, ricordava Giorgio Locchi. Supremi arbitri rimangono le radici, il senso comunitario e la Volontà.
Agostino Nasti