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“Il grande Gatsby”: 94 anni e non sentirli

by Ilaria Paoletti
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Roma, 10 apr – Era il 10 aprile 1925 quando Francis Scott Fitzgerald pubblicò Il grande Gatsby e nel 2019 è più attuale che mai.

La storia, forse, la conosciamo tutti: Gatsby incontra la bella Daisy quando è solo un ufficiale d’esercito, spiantato e senza futuro, ma i due s’innamorano. Daisy, però, è figlia di quella borghesia del sud degli Stati Uniti, potente e seminobiliare. Così Gatsby viene soppiantato dal ricco Tom Buchanan. Ma non si arrende: passa la vita nel tentativo – riuscito – di diventare ricco, ricco a tutti costi e con tutti i mezzi, ricco abbastanza da poter comperare la casa al di là dal molo, a East Egg, New york: proprio davanti alla villa di Daisy e di suo marito. E dopo aver dedicato l’intera vita al sogno di riconquistare la donna amata, sembra quasi riuscire a sfiorarlo

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Zelda Sayre, moglie di Francis Scott Fizgerald e l’autore stesso, in uniforme

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La copertina della prima edizione del 1925

Il grande Gatsby uscì in Italia nel 1935, con la traduzione dell’immensa Fernanda Pivano. E’ una tragedia moderna e, a dirla tutta, contemporanea. Jay Gatsby, il vero Gatsby, consacra la propria esistenza all’accumulo di ricchezze che gli diano un ritorno d’immagine tale, che gli permettano una tale ostentazione, da catturare, insieme a mille altri sguardi, quello della donna che un tempo l’aveva amato. Non è forse – in misura minore e con meno afflato romantico – ciò che cerchiamo di fare noi, con le rappresentazioni di noi stessi, sui social network? E’ un sentimento del 1925 che, oggi, è ancor comprensibile. Quello che purtroppo non è comprensibile, o è difficile da descrivere, è l’eterno affannarsi di Gatsby appresso a un ricordo, il suo tendere verso la “luce verde” alla fine del molo, il suo sforzo sovrumano di trasformare il suo amor cortese per Daisy in realtà.

Il romanzo di Fitzgerald è, comprensibilmente, considerato uno dei più grandi capolavori della letteratura americana e mondiale. Fitzgerald sapeva di cosa stava parlando – la sua Zelda era, per molti versi, simile alla Daisy del romanzo – e ne scriveva in maniera sublime: è riuscito in poche parole, in pochi gesti dei protagonisti (come quando al primo re-incontro tra Daisy e Gatsby lui urta un orologio goffamente e quasi lo fa cadere – quasi gli cade la maschera) a raccogliere un’intera vita di malinconia, di spinta vitale, di rimpianto per la gioventù perduta e a spingere la riflessione, il moto emotivo, al di là della storia romantica, a renderlo eroico ed esistenziale, come forse avrebbe saputo fare, con la medesima misura e umiltà, solo Jack London e che è espressa nella massima forma dall’explicit del romanzo:

“Mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina… Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.”

Ilaria Paoletti

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