Roma, 20 giu – Per scrivere della crisi idrica di Roma (ora è ufficiale) potremmo partire dall’opera De aquaeductu urbis Romae di Sextus Iulius Frontinus , nominato “Curator Aquarum” nel 97 D.C. dall’Imperatore Nerva, ma sarebbe un confronto impietoso. Giulio Frontino prima di prendere la responsabilità dell’approvvigionamento idrico dell’urbe fu Praetor Urbanus nel 70 e Console Suffectus nel 73; fu inviato in Britannia come governatore negli anni 74-78 e in tali vesti sottomise Siluri e Ordovici, popolazioni celtiche che risiedevano nei territori dell’attuale Galles, fondando la fortezza legionaria di Deva Victrix. De aquaeductu urbis Romae riflette la serietà e lo scrupolo del suo impegno. L’opera contiene notizie storiche, tecniche, amministrativo-legislative e topografiche sui nove acquedotti esistenti all’epoca, visti come elemento di grandezza dell’Impero Romano e paragonati, per la loro magnificenza, alle piramidi o alle opere architettoniche greche. Diciamo che i Romani sceglievano amministratori e tecnici fra gente di spessore.
L’opera si è conservata nel codice Cassinensis 361 di mano di Pietro Diacono (XII secolo), ritrovato nell’Abbazia di Montecassino da Poggio Bracciolini nel 1429. E’ bene ricordare che al tempo di Giulio Frontino, Roma era servita da 9 acquedotti (poi 11) e che la portata era stimata in 24.360 “Quirinarie” al secondo, pari a 1.010.623 metri cubi al giorno: una disponibilità pro-capite doppia di quella attuale! Scrive Dionigi di Alicarnasso: “Mi sembra che la grandezza dell’impero romano si riveli mirabilmente in tre cose, gli acquedotti, le strade, le fognature”. Questa rievocazione è consolatoria perché in merito alla attuale crisi idrica di Roma (che si estende ai comuni vicini) leggiamo che è dovuta alla “siccità” (mannaggia, chissà i Romani come facevano) ma soprattutto al fatto che le condotte (i tubi) perdono circa il 40% dell’acqua durante il percorso fra le sorgenti alle nostre case. E perché? L’Imperatore avrebbe licenziato Giulio Frontino (e forse pure fatto mangiare dai leoni).
Perchè da decenni e decenni non si fa manutenzione. Le condotte sono quelle del dopoguerra, dell’anteguerra, del tempo dei Papi e pure del tempo dei Romani (l’acquedotto dell’Acqua Vergine, inaugurato da Marco Vipsiano Agrippa il 9 giugno del 19 a.C ancora funziona (all’epoca i tubi li sapevano fare e anche gli edifici pubblici visto che Agrippa ci ha lasciato anche il Pantheon). E quindi nemmeno si può fare il tiro al piccione con la Raggi, perché la mancanza di manutenzione è “storica”, ma può dirsi cominciata con la Legge Galli (5 gennaio 1994, governo Ciampi) che “riordina” il sistema idrico italiano in vista della famosa e famigerata privatizzazione dell’acqua. Da quel momento tutto è diventato aleatorio e lo dico per esperienza diretta, visto che dal 1994 lavoro nel settore del trattamento acque. In attesa della salvifica “Mano Invisibile” privata la manutenzione delle opere primarie (i tubi, le condotte) non le ha fatte più nessuno, tranne che per le emergenze (quando scoppiavano) e quindi tutto il sistema è andato progressivamente degradando fino al collasso attuale. E’ come se voi mettete 10 euro di benzina nel serbatoio bucato, 4 si perdono ma il serbatoio non lo cambiate.
Parallelamente è iniziata la questione della sete con raccapriccianti immagini della siccità nel Sahel (sarebbe la fascia africana sotto al deserto del Sahara), che colpevolizzandoci perché “consumiamo troppa acqua sottraendola agli assetati” ci voleva far accettare l’aumento di prezzo dell’acqua dovuto alla privatizzazione, per remunerare l’impegno degli imprenditori privati che si guardavano bene però dal cambiare i tubi. Non riesco a non scagliarmi contro la capronaggine dei miei concittadini sempre disposti a bersi qualsiasi cialtronata. L’Italia (una penisola lunga un migliaio di km con al centro una catena montuosa) è un perfetto e naturale sistema orografico/idrografico: le nuvole che provengono dal mare cariche di vapore acqueo poi lo scaricano sulle montagne dove si generano fiumi, torrenti e fossi che la riportano nel mare. Ce la portano comunque, non è che se noi la “risparmiamo” poi l’acqua va a piovere nel Sahel.
Naturalmente l’acqua bisogna andarla a prendere dove c’è, in genere nelle sorgenti montane. E cambiare i tubi quando sono vecchi. Noi romani (e gli italiani in genere) proprio grazie all’orografia, possiamo permetterci di avere in casa l’acqua di sorgente. Questa viene “captata” (altrimenti se ne va direttamente in mare), controllata, potabilizzata ove sia necessario migliorarne le qualità organolettiche e immessa negli Aquae Ductus come faceva Giulio Frontino. L’alternativa è usare l’acqua dei grandi impianti di depurazione cittadini, che ci arriva tramite le fognature, che viene “depurata” riportandola in precisi parametri di legge (D.Lgs. 152/2006) e reimmessa nel “corpo idrico superficiale” (fiume) da dove torna al mare. Non è “potabile”.
Poiché tutta l’acqua che scarichiamo arriva ai depuratori, si può prendere l’acqua già depurata e invece di mandarla a fiume, potabilizzarla, ripomparla negli acquedotti e farla riuscire dai vostri rubinetti. Tecnicamente già si fa, specie all’estero dove non hanno la fortuna di avere la nostra orografia. E comunque si fa per quegli invasi (in genere i laghi) da cui si prende l’acqua e la si potabilizza prima di immetterla negli acquedotti. Ma non è meglio cambiare questi benedetti tubi? Il problema dei tubi è solo “economico/finanziario”. La Mano Invisibile dei privati vuole solo incassare moltiplicando per due, per tre o per cinque la bolletta. Lo Stato non ha il becco di un quattrino, costretto nei parametri finanziari dei geni della finanza. E a noi prima o poi ci toccherà avere in casa l’acqua di fogna riciclata, naturalmente a caro prezzo per ripagare i costi di ri-potabilizzazione, anche se la natura ce la darebbe già potabile gratis come la dava a Giulio Frontino. Ma così il business langue, meglio creare l’emergenza e gestirsela (come per i rifiuti). Speriamo non puzzi troppo.
Luigi Di Stefano