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La “guerra mondiale a pezzi” si riunifica? Prospettive da incubo tra Ucraina, Israele e Cina

by Stelio Fergola
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16mila volontari medio oriente, russia

Roma, 4 apr – L’aveva chiamata “guerra mondiale a pezzi” proprio Papa Francesco nel lontano 2014, a ben vedere molto prima che lo scenario globale si sviluppasse nei modi a cui stiamo assistendo, ed è difficile dare torto alla definizione. D’altronde, non ci sono solo scontri in giro per il globo che, in fondo, non sono mai mancati. Ci sono stati anche dei piccoli riflessi da economia di guerra che abbiamo visto pure sui nostri carrelli della spesa. Chiaramente, nulla di – ancora – paragonabile agli sconvolgimenti novecenteschi, ma sussistono ragioni per preoccuparsi se guardiamo ai tre teatri principali dei conflitti in corso: l’Ucraina, il Medio Oriente e la Cina (o meglio, Taiwan). Meno nell’ultimo, ma senza dormire sonni troppo tranquilli…

La guerra mondiale a pezzi potrebbe “unificarsi”?

Andando dritti alle questioni, in Ucraina ci si trova in una fase di stallo: si è ampiamente compreso come il conflitto non abbia speranze di volgere a favore degli “aggrediti”, e che la Federazione Russa, nonostante uno scontro che l’ha vista faticare molto più delle iniziali previsioni, salvo sorprese non potrebbe che avere la meglio: troppa differenza di mezzi e uomini, nonostante criticità evidenti emerse (come l’obosolescenza di alcuni armamenti, soprattutto nella prima fase della guerra). Del resto, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha di recente lanciato l’ennesimo allarme: Mosca sarebbe pronta a mobilitare altri 300mil soldati, un’enormità.

Poi c’è il Medio Oriente, dove si è partiti con la guerra sulla Striscia di Gaza dopo l’attacco a Tel Aviv del 7 ottobre scorso, si è proseguito con gli spari costanti degli Houthi sul Mar Rosso alle navi occidentali, e andato avanti non solo con l’Iran che interviene in Pakistan e in Siria, ma con la risposta – che si potrebbe quasi definire terroristica, visto come è avvenuta – della stessa Israele contro l’ambasciata iraniana a Damasco. Nell’area il conflitto si è già esteso da mesi, in uno scenario che ora vede Tel Aviv contro tutti.

Infine, c’è la ben nota questione di Taiwan. Lì la cautela è ai massimi livelli, tanto da parte americana che dal lato cinese. Lo scontro diretto fa paura a tutti. Molto incoscientemente, meno agli americani, o meglio alle minoranze che guidano gli Usa. Ecco perché.

Chi c’è dietro la possibile deflagrazione globale e unificata

La risposta ad oggi appare ovvia, e si chiama ancora una volta Stati Uniti d’America. I quali, peraltro, sono in difficoltà: troppi fronti aperti, come sottolineavamo già negli scorsi mesi, e l’impossibilità tecnica di sostenere militarmente e con la stessa intensità tanto Israele quanto l’Ucraina. Sono decenni che le minoranze neocon non sanno letteralmente che pesci prendere per affrontare un dato geopolitico ormai inevitabile: la perdita di dominio primario statunitense sullo scenario globale. O meglio, lo sanno, ma le impostazioni non sono esattamente felici: le guerre. Per “interposta persona” in Europa e in Medio Oriente, forse perfino direttamente con la Cina, sebbene nel terzo caso la questione sia molto più complicata e decisamente più remota: la linea rossa per ora non sembra in discussione, come testimoniato dall’ultima telefonata tra i presidenti Joe Biden e Xi Jinping. Ma da Washington, intanto, si preparano, come dimostra l’atteggiamento negli altri due teatri bellici. La guerra mondiale in tre pezzi (di cui uno ancora “freddo”) potrebbe quanto meno compattarsi “in due”. E come si sa, le evoluzioni in certi casi sono imprevedibili.

Stelio Fergola

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