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La “guerra santa” non abita qui: Roma, lo justum bellum e la jihad (parte II)

by La Redazione
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guerra santaRoma, 2 set – La condizione della guerra, per vero, viene vissuta a Roma, piuttosto come una stato di eccezionalità, che di naturalità, come poteva essere, invece, presso alcune popolazioni nordiche dell’epoca: persino in Virgilio, il cantore della grandezza e del destino imperiale romani, essa si configura alla pari di una situazione funesta (nulla salus bello) e, addirittura, sul piano religioso il bellum è associato esplicitamente alla sfera dell’illeceità sacrale, del nefas (v. ad es. Aen. 2,217-220; 7,583; 10,900-902; 12,572 e 804); per conseguenza, il rito feziale, i tentativi di scongiurare a tutti i costi l’inizio di un conflitto sanguinoso, costituiscono il passo necessario per ricondurre lo scontro nell’alveo di ciò che è consentito e approvato dalle leggi umane e dalle forze celesti, secondo i principi della pax deorum, il patto che lega Roma ai suoi Dèi sin dal suo sorgere. Un magistrato che avesse mosso guerra in violazione di queste regole, sarebbe stato esposto alla deditio: antica usanza che prevedeva “l’estradizione” del generale e l’abbandono nelle mani del nemico.

Tutto ciò ovviamente, non significa che il civis romanus, il legionario, costituissero figure romantiche di prodi e indomiti militi senza macchia: idea individualistica tipica della letteratura cattolica medioevale, ma che aveva poco spazio nel pensiero latino, che pure annoverava fulgidi esempi di nobili figure, epperò tratteggiate più sovente per una loro schietta durezza e austerità, nonché da un particolare senso pel sacrificio impersonale. Nient’affatto, dunque, “sommo cavalier”: e anzi i primi a sorridere di quest’idea, sarebbero stati gli stessi romani, come dimostrato dalla rappresentazione comica del miles gloriosus. Il soldato di Roma era saldo, spietato, persino feroce e crudele sul campo di battaglia quando occorresse, perché discendente di una schiatta eroica e guerriera che recava nel proprio sangue e spirito, l’impronta di un mondo arcaico bellicoso e rude, protetto dal Marte italico: non concedeva, né chiedeva quartiere al nemico; se catturato sapeva cosa l’attendeva, secondo le ferree leggi della guerra elaborate dall’Urbe stessa: il romano prigioniero del nemico, diveniva servus hostium, perdendo la titolarità dei propri diritti e con ciò la cittadinanza.

Ma una volta deflagrato il conflitto, proprio per questi motivi, il bellum va contemperato, deve trovare una sistemazione – quasi una sorta di tentativo di limitazione, per certi versi del furor bellicus incondizionato – in un insieme di precetti che fondano insieme la condotta salda, olimpica, autenticamente virile e sacralmente orientata del pius et optimus bellator. Così, sul piano tattico, la disciplina e un rigido addestramento connaturati al primigenio ordinamento centuriato e allo schieramento manipolare, opposti alle disordinate turbae nemiche, al teutonico furore. Osserverà più tardi lo storico Flavio Giuseppe, studiando la perfezione raggiunta nel I° sec. d.C. dalle legioni romane, come “le loro manovre si svolgono con un impegno pari ad un vero combattimento, tanto che ogni giorno tutti i soldati si esercitano con il massimo dell’ardore, come se fossero in guerra costantemente. Per questi motivi essi affrontano le battaglie con la massima calma; nessun panico li fa uscire dai ranghi, nessuna paura li vince, nessuna fatica li affligge, portandoli così, sempre, ad una vittoria sicura contro i nemici”.

Ma anche sul piano religioso occorre porre dei freni, quali la scrupolosa limitazione del tempo in cui si deve combattere, scandita dalle due cerimonie annuali della confraternita saliare, dell’Armilustrium (ottobre) e del Tubilistrium (marzo) in cui, rispettivamente, le armi vengono purificate e riposte in coincidenza con la fine della stagione delle operazioni belliche, ovvero le trombe da guerra lucidate per il suo inizio, indicando così come vi fossero dei precisi confini cronologici da rispettare. Perché non è opportuno, né fasto, né giusto che si viva continuamente l’esperienza della violenza e ci si immerga per troppo tempo in mezzo al sangue; vediamo così, nel 191 a.C., P. Cornelio Scipione Africano – uno dei più grandi condottieri che Roma espresse, forse impareggiabile sul piano della manovra operazionale : di talché le sue gesta restano ancora materia di studi presso l’Accademia di West Point – ordinare, nel corso della campagna in Asia minore, la sospensione per 30 giorni di ogni attività militare agli inizi del mese di marzo, spiegando che non era lecito marciare quando a Roma venivano mossi gli ancilia (cioè gli scudi bilobati, esibiti dai Salii nelle loro danze) (Liv. 37, 33, 6); molti anni più tardi, l’imperatore Otone, accecato dalla brama di potere, sperimenterà su di sé, cosa significasse prendere le armi senza rispettare quei precisi limiti, pur richiamato al loro rispetto (Svet. Otho 8, Tac. Hist. 1,8). Del resto, “lustrare” l’armamento, ripulirlo dalla brutalità che può esservi nella guerra, era consuetudine ciclica per l’armata, cui non si derogava neppure nelle campagne più aspre, come indica Cesare nel suo De Bello Gallico; sopra ogni altra regola, si ponevano poi i precetti del diritto augurale che esigevano come il duce romano si allineasse alla volontà divina (fas) e prima di ingaggiar battaglia, osservasse gli auspici militari per ottenere il consenso celeste circa il giorno in cui fosse lecito combattere: dapprima, in epoca più remota, scrutando lo scintillio per magnetismo, prodotto dai cd. fuochi di S. Elmo, sulla punta delle lance della truppa schierata e poi, più tardi, per mezzo di polli, di cui si apprezzava l’appetito.

guerra santaIdee che lungi dal rimandare a superstizioni primitive, indicano senza dubbio che lo spargimento del sangue, la ferocia del guerriero devono sempre essere incanalati secondo stringenti dettami sacrali: solo così la volontà di Giove Ottimo Massimo può accompagnare il mestiere delle romane armi, garantendone la vittoria. Allo stesso simbolismo, agli stessi principi, rimandano tanto la consuetudine di far passare l’armamento dell’esercito trionfante, di ritorno in città, sotto rami di alloro, per purificarlo e lustrarsi (quasi per evitare una pollutio, una contaminazione, della città con la profana esperienza della guerra: e così pure una corona d’alloro era posta sul capo del generale trionfatore), quanto, in senso più lato, la rigida separazione, all’interno dell’Urbe, posta dal confine sacro del pomerium (in un certo senso, più tardi rappresentato dal limes) che divide l’imperium domi del magistrato (la giurisdizione domestica, civile) da quello militiae (il comando militare), l’ordinario e lo straordinario, il mondo civilizzato e quello selvaggio.
Tutto ciò si può riscontrare, in modo particolare, nelle vicende relative al rapporto con le popolazioni contigue e alla conquista romana della penisola italica : di fatto, nei suoi primi secoli di vita, Roma condusse esclusivamente campagne militari difensive. Ché, questa è la verità storica: in epoca arcaico-repubblicana, l’Urbe si limitò sempre a proteggere il proprio territorio, finendo con il conquistare quello nemico, per quanto se ne dica, solo a seguito dell’attacco subito. Ciò risulta particolarmente vero, poi, all’epoca delle guerre contro Cartagine: quest’ultima, ormai in declino irreversibile per la mancanza di sbocchi commerciali in Oriente, si trovò ad aggredire Roma, l’unica potenza che poteva ostacolarne l’espansione sul bacino occidentale del Mediterraneo. A riprova, si notino, l’assenza presso i romani delle due principali armi strategiche offensive dell’epoca: una valida e numerosa cavalleria indigena e un’adeguata flotta (cui si rimediò, parzialmente, solo in quest’epoca) oltre alla mancanza del ricorso a mercenari e “professionisti” della guerra, giacché l’esercito era tratto tra semplici e comuni cittadini, in base al sistema centuriato, quando occorresse. E questa politica proseguì, quantomeno, fino al tardo II° sec. a.C., allorquando a seguito del suo rapido dilagare nel Mediterraneo, Roma venne in contatto con altre popolazioni. Da quell’età in poi, secondo la felice espressione elaborata da Theodor Mommsen nella sua celebre Römische Geschichte (“Storia romana”), l’Urbe adottò una politica dell’”imperialismo difensivo”, basata sul rispetto dei trattati stipulati, piuttosto che su una strategia ferocemente espansionistica: va da sé che quando una nuovo pericolo si affacciava contro alleati o piccoli regni amici di Roma, in ossequio a quelle regole della fedeltà alla parola data (fides), ai patti sottoscritti (foedera) e al sentimento d’’onore verso l’amico (amicitia) propri ai nostri avi, essa muovesse con tutta la propria forza e abilità contro il nemico, finendo per lo più con il soggiogarlo.

Ma pure in lunghi periodi di epoca imperiale (si veda il lucido studio di Edward Luttwak, “La grande strategia dell’impero romano”), allorquando, pure, l’antico sistema di reclutamento civico fu sostituito da un vero e proprio esercito professionale permanente, altamente specializzato, l’idea fu piuttosto quella di stabilire un limes ad occidente fisso, per difendere l’impero dalle invasioni barbariche e di cingersi ad oriente, per mezzo di stati cuscinetto amici, che di “conquistare il mondo”. Concetto, se si riflette bene, assente nel pensiero storico latino, se è vero che mentre il limes aveva una precisa connotazione e posizione geografica (il vallo di Adriano in Britannia, quello africanum, le fortificazioni lungo il Reno, le frontiere più incerte ad Oriente, corrispondenti a quelle del regno persiano dei Parti o sasanide) di per sé i fines dell’imperium romano, non vennero mai pensati ed elaborati, proprio perché coincidevano (e finivano) con il mondo allora conosciuto: in una parola, erano la pax romana ; vocabolo, non per caso, che si ricollega ad una radice sanscrita *pak- o *pag- = fissare, pattuire, legare, unire, saldare, rimandante ad un concezione di fissità salda e immutabile che tutto lega a sé. Un dato, su cui certi opinionisti che forse han letto troppo (e certo troppo preso sul serio) le accese arringhe di Mitridate VI° Eupatore contro il popolo romano – e sia detto incidenter tantum, Mitridate fu uno dei più grandi killer di civili innocenti d’italica stirpe che la storia umana rammenti, recitando la tragica conta a suo carico, tra le 80.000 e 150.000 vittime -, dovrebbero riflettere, prima di lanciarsi in giudizi sulle brame di dominio di Roma.

guerra santaLa civiltà islamica, per come essa si è manifestata storicamente in ogni epoca, pone invece, come accennato, al proprio centro un’idea teologica: ed è quella, in sostanza, di una dominazione mondiale. C’è poco da ingannarsi: la fine dell’espansionismo islamico in occidente, coincise e fu dovuto solo a motivi storici strettamente contingenti, quali le gravi sconfitte subite nel sud-europa ad opera dei Franchi e più ad oriente, per merito del baluardo opposto dalle indomite popolazioni balcaniche prima e dalle forze imperiali poi. Del resto, è ciò che viene indicato nelle scritture sacre: proselitismo e conversione delle popolazioni “idolatre” o “pagane” devono animare l’operato del buon fedele; estendere la conoscenza del libro sacro dell’Islam, il Corano, costituisce dovere e scopo ultimo dell’uomo santo, anche per mezzo della guerra; precetti come “uccideteli ovunque li troviate e scacciateli”, “non vi mostrate deboli [né] invitate alla pace”, “quando incontrerete quelli che non credono, abbatteteli finché non ne abbiate fatto strage [traendo] allora [gli altri] in saldi ceppi” (cfr. Corano 2, 187; 47, 37; 47, 4) passano di bocca in bocca e vengono insegnati come parola divina. Solo alle cosiddette “genti del Libro”, cioè in sostanza cristiani, ebrei e zoroastriani (questi ultimi, limitatamente: i Parsi, ad esempio, dovettero trovare rifugio in India), può essere permesso e concesso, pur nella loro imperfezione, di continuare a vivere, a patto che accettino la superiorità dell’Islam, si diano una disciplina (cioè si astengano dalla predicazione e proselitismo) e paghino pesanti tributi, divenendo così un dhimmi, vale a dire un “membro delle religioni tollerate dalla legge”. Per ogni altro, la via rimane quella della conversione o della morte: e i convertiti, ovviamente, ottenevano i pieni diritti civili ed erano tenuti solo al versamento dell’elemosina legale.

Non senza significato, la lingua ufficiale insegnata ai popoli vinti, diviene obbligatoriamente quella araba, proprio perché è l’unica che permetta la preghiera e la comprensione dei testi santi islamici: pretesa, incidentalmente, che fu del tutto estranea alla concezione di universalità culturale romana, ove il greco, era assai più diffuso del latino, impiegato nei documenti di carattere amministrativo ufficiali. Il guerriero dunque è uno strumento del verbo di Dio (anzi, dell’unico vero Dio) e la guerra uno stato naturale per liberare le popolazioni dall’ignoranza dei precetti islamici: non a caso l’armata della dinastia Omayyade, VII-VIII° sec. d.C., fu conosciuta come “l’esercito dei credenti”. Il nemico è identificato in tutti coloro che sono estranei alla fede coranica: il livello della sanzione morale e religiosa può variare (dal semplice disprezzo, alla morte) ma esso ha ineluttabilmente come punto centrale un’idea teologica di superiorità ed esclusività: gli idolatri vanno convertiti o eliminati. Del tutto differentemente dai principi romani in tema di tolleranza e credenze degli altri popoli, sol che si pensi al fatto che essi cercavano, per mezzo dell’evocatio (come fu il caso per Veio e Cartagine) di attrarre a sé la forza benefica e protettrice delle altrui divinità onorate, per poi inserirle nel proprio pantheon.

Tale è, dunque, l’abisso che separa la concezione classica sacra della lotta, dalla guerra santa islamica. Che cosa avrebbero pensato i nostri avi della civiltà musulmana? Come si sarebbero comportati? Con i se e i ma, è noto, non si fa la storia. E’ però molto verosimile che avrebbero combattuto senza risparmio contro l’islamismo, non foss’altro per la folle vanità di quest’ultimo di convertire il mondo a suon di conquiste; né si sbaglierebbe troppo, poi, a credere che avrebbero giudicato una sorta di pazzia religiosa (superstitio) l’idea di applicare un rigido insieme di norme sante ad ogni uomo o donna, regolandone la vita quotidiana nei più minuti aspetti. Di certo, v’è questo: avrebbero pensato quanto fosse iniusta et empia, la loro pretesa “guerra santa”.
(2.- fine )

Stefano Bianchi

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