Roma, 2 mar – “Schmitt mi offriva vertiginose visioni topografiche d’insieme. Non allenava la mia memoria, ma saggiava la mia fantasia. Le sue non erano nozioni o informazioni. Era un ‘sapere’ d’altro genere”. Siamo nella Berlino dei primi anni ’40 e il giovane Nicolaus Sombart, figlio dell’economista Werner, ama sfuggire all’atmosfera di pericolo incombente che già regna sulla Germania facendo delle lunghe conversazioni con questo curioso giurista amico di famiglia, che ai manuali di diritto preferisce i testi sapienzali.
Ha quindi ragione Giovanni Gurisatti a sostenere che lo Schmitt “smascheratore” nietzscheano cade poi in contraddizione (a differenza dell’autore dello “Zarathustra”) quando finisce per prendere sul serio la sua, e solo sua, oggettività di scienziato del diritto, come se tutti ragionassero a partire da un inconfessato fondale di retropensieri tranne l’uomo di Plettenberg. E invece proprio la parte scientifica della produzione schmittiana non è altro che l’affiorare nel linguaggio accademico di ciò che resta per lo più celato in profondità abissali e mistiche. Salvo talvolta stagliarsi in superficie. È il caso del noto Terra e mare, il gioiellino filosofico del 1942. È il caso di alcuni dei saggi raccolti in Stato, Grande spazio, Nomos (Adelphi, pp. 527, € 60,00), curato appunto da Gurisatti, che nell’introduzione contestualizza i testi scritti tra il 1927 e il 1978, originariamente raccolti in due diverse antologie tedesche e ora selezionati e condensati in un unico volumone. Che è di fatto imprescindibile per chiunque abbia a cuore un pensiero che – è ancora il curatore italiano a parlare – ha “una lucidità che assume non di rado i tratti della chiaroveggenza”.
Uno Schmitt esoterico, quindi? I titoli dei saggi presentati ora al pubblico italiano sono in realtà anodini, da “Mutamento di struttura del diritto internazionale” a “La rivoluzione legale mondiale”. C’è però un tema che ricorre, esplicitamente o implicitamente, in tutti questi scritti: lo spazio. Lo spazio occupato “ubiquitariamente” dalle potenze anglofone, lo spazio che è alla radice del politico (non c’è Ordnung senza Ortung, non esiste ordine senza localizzazione), lo spazio che va diviso per grandi insiemi “imperiali”, secondo la famosa dottrina del Großraum, illustrata in un noto testo del ’41 raccolto nel volume.
E, scavando sul tema, ecco che man mano si lasciano i territori della scienza e ci si inoltra in un territorio ulteriore: è la mistica della terra, della justissima tellus. Non la zolla intrisa di sangue del Blut un Boden, ma la terra come fondamento, come condizione di possibilità dell’esistenza umana, dello Stato, della comunità, della politica. Non poteva certo sfuggire a tale sensibilità la potenza della civiltà che più di tutte si era fondata su una consapevole e grandiosa appropriazione sacra dello spazio: Roma. All’Urbe, il giurista dedica il breve e straniante testo del 1951, “Raum e Rom. Sulla fonetica della parola Raum”. Qui Schmitt si dice certo che il termine tedesco per spazio e quello per Roma “sono la stessa parola”. Una parola che Schmitt definisce misteriosamente “indistruttibile”. Nulla può, contro lo spazio consacrato, la marea montante della modernità che, metro dopo metro, ha seppellito questo cosmo di solchi e confini, perimetri e tracciati. Un mare che tutto annulla, in cui è impossibile fondare alcunché. Uno tsunami che ha portato con sé la notte dell’Europa. Ma Schmitt era anche, di nuovo con Nietzsche, un filosofo dell’aurora: “L’uomo un mattino si sveglierà e sarà ben felice di riconoscersi figlio di una terra saldamente fondata”.
Adriano Scianca