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La Prima della Scala, simbolo del potere oppressore

by Stelio Fergola
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Prima Scala

Roma, 8 dic – Tutti lì, ad autocelebrarsi, a pavoneggiarsi e ad atteggiarsi a democratici. Da anni, da decenni, la Prima della Scala di Milano è questo. Scontato che vi partecipi l’alta società, meno piacevole è vedere “questa” alta società ribadire con ogni minimo gesto ciò che già dichiara con le sue azioni concrete: una distanza dal popolo e dai suoi drammi sempre più profondo. Il “rumore” prodotto dall’attivista che dopo l’Inno di Mameli ha gridato “viva l’Italia anti-fascista” forse va addirittura visto con favore, e vedremo perché.

La Prima della Scala, il potere nemico degli italiani

Mancava il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma cambia poco. C’era la solita Lilana Segre, professione sopravvissuta, c’era Ignazio La Russa, mesto rappresentante di ex-idee dissidenti ora pienamente inquadrato-paralizzato in un sistema che – come è logico – è molto più grande di lui. C’era Matteo Salvini, vicepremier leader di un partito che ha subito ogni tracollo possibile dal punto di vista elettorale per cause anzitutto ideologiche e – manco a dirlo – di dissidenza. Non poteva mancare il principe Giuseppe Sala, numero uno di spicco dell’arcobalenato municipio milanese. Chi viene in teoria da decenni di idee dissidenti è lì, pienamente integrato o paralizzato. Tutti in fila, come una corte aristocratica, a guardare la gente dall’alto in basso. E precisiamo, l’aristocrazia dell’ancient regime aveva ben altra dignità. La Prima della Scala è il circolo dei privilegiati da Ztl, altro che nobiltà colta e preparata. È il simbolo più autentico della distruzione della Nazione, perpetrata nei confronti di un popolo italiano perennemente scontento e infelice senza sapere perché. Un “perché” che risiede in quella auto-schiavitù indotta che i signorotti gli hanno imposto nei decenni, nel ripudio della loro essenza, utile a spingerli verso le disgregazioni maggiori, perfette per la sottomissione e l’obbedienza.

“Viva l’Italia antifascista” dopo l’Inno di Mameli

“Tutti lì insieme ad autocelebrarsi, quei rincoglioniti”, diceva Alexander Kerner alla madre in una scenda del film Good Bye Lenin! (2003), durante le cerimonie del quarantesimo anniversario della Ddr (in un film, peraltro, piuttosto nostalgico del comunismo reale tedesco). La Prima alla Scala fa pensare di esclamare qualcosa di simile. Salvini ha provato a metterci becco, criticando l’urlatore su cui si è polemizzato tanto: “Alla Scala si viene per ascoltare, non per gridare”. Ma insomma, c’è poco altro. Forse il disturbatore va ringraziato. Senza volerlo, ha mostrato il lato contorto di questa Repubblica, delle sue stesse origini e di quanto essa abbia generato fratture praticamente dalla sua nascita. “Viva l’Italia anti-fascista” dopo l’inno nazionale, in fondo, stona non solo per la scena di per sé, oggettivamente poco elegante, ma per il contrasto indicibile generatosi da una ottantina d’anni non tra l’Italia anti-fascista e il morente fascismo, ma tra l’anti-fascismo e la stessa italianità, dal momento che il primo ha prodotto storicamente la negazione della seconda. Un’Italia nata fratturata, perché frutto di una tragedia. Che potrà essere sanata soltanto da un evento collettivo realmente unificante e pacificante. Quale il 1945 – e soprattutto il 1943 – non fu e non sarà mai.

Stelio Fergola

 

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