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Ma quale ripresa: recupereremo i livelli pre-crisi solo nel 2023

by Filippo Burla
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Roma, 16 gen – Quindici anni letteralmente buttati fra crisi dei subprime (importata), stretta del credito e austerità (auto)imposta dall’Ue. Non bastassero i dati drammatici sulla crescita, che dall’introduzione dell’euro ad oggi è stata in media dello 0,5% annuo, i dati modestamente positivi degli ultimi trimestri non sembrano minimamente in grado di poter invertire il passo di un’economia ancora alle prese con le difficoltà di quella che è stata definita una stagnazione secolare. A spiegarlo l’ufficio studi della Cgia di Mestre, che annuncia il rischio per la ripresa “di affievolirsi già a partire da quest’anno”.
Se per il 2017 il Pil è stimato al +1,7%, nel corso del 2018 la ripresa perderà infatti vigore, facendo segnare secondo le previsioni un ancora più magro +1,3%. Faranno meglio di noi tutte le grandi economie dell’eurozona, Paesi malmessi compresi. La Germania crescerà di due punti percentuali, la Francia è destinata a sfiorarli, la Grecia addirittura ci doppierà con un clamoroso +2,5%. Numeri che comprendono tutto e il contrario di tutto (la ripresa della Grecia, ad esempio, è sì statisticamente rilevante, ma allo stesso tempo al prezzo di un salatissimo costo sociale) e che però permettono di apprezzare il significativo ritardo dell’Italia.
Risultato? “Il livello di crescita raggiunto nel 2017 è lo stesso di quello che registravamo nel 2003 – spiega sempre la Cgia – e per recuperare la situazione ante crisi (2007) le previsioni di crescita elaborate da Prometeia ci dicono che dovremo attendere il 2022-23”. Ci vorranno dunque almeno altri cinque anni per ritrovare il terreno perduto, gettando così alle ortiche un decennio e mezzo fatto di politiche scellerate che avranno forse salvato la moneta unica e l’architettura economica dell’Ue, distruggendo al contempo i nostri fondamentali. Prova ne sia la dinamica della disoccupazione, che nonostante la sedicente ripresa veleggia ancora in doppia cifra e solo quest’anno scenderà, di poco e con molte difficoltà, al di sotto dell’11%. Ancora troppo alta – al netto di un metodo di calcolo mai aggiornato alle mutate condizioni del mondo del lavoro e dunque incapace di fotografare una realtà dei fatti nella quale i lavoratori senza una seria occupazione sono come minimo un multiplo del dato reale – per poter affermare che il peggio è alle spalle.
Filippo Burla

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