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#MeToo e altre derive: triste storia del femminismo patinato cinetelevisivo

by La Redazione
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Roma, 15 mag – Chi è nato tra gli anni sessanta e settanta è cresciuto con alcune figure di tale presa e carica suggestiva dall’essere ancora oggi consegnate trionfalmente all’immaginario di genere. Figlie del loro tempo, erano modelli femminili nuovi. Emancipate dalla controparte maschile, erano donne indipendenti, autonome e toste. Ma femminili. Si pensi alle Charlie’s Angeles, alla Donna Bionica, alle Avengers (quelle autentiche) Purdey ed Emma Peels. Tipe in gamba che giocoforza si misuravano e vincevano contro gli uomini, essendo quello criminale un ambiente a prevalenza maschile. Sparavano con precisione micidiale, guidavano auto sportive a folle velocità, eccellevano nel corpo a corpo. Erano esperte di esplosivi e nell’uso della tecnologia. Facevano sfoggio di raffinata cultura, ironia e consapevole sensualità. Queste eroine ben rappresentavano il loro universo senza per questo andare in collisione con l’altro. Erano donne che non si negavano. Senza per questo adattarsi a supposte o reali aspettative.

Al pari di esse e con medesime caratteristiche erano altri personaggi femminili entrati di diritto nella storia del cinema, si pensi a Leia Organa, principessa guerriera di una galassia funestata dalla guerra civile. Con la medesima determinazione teneva testa all’Impero e alle intemperanze di Han Solo fino a conquistarne il cuore. O alla successiva, la combattiva Sarah Connors, che amando Kyle Reese genera John, da ella stessa addestrato per divenire capo della resistenza umana contro la dominazione delle macchine. In realtà l’immaginazione ha sempre messo a disposizione del “gentil sesso” una significativa porzione di narrazione incentrata non sul ruolo di comprimario ma piuttosto di protagonista assoluto. Dall’avventuriera Angelica, la marchesa degli Angeli a Red Sonja e Dark Agnes, entrambe figlie di quel Robert E. Howard – che a dispetto di personaggi femminili grandiosi è stato spesso etichettato come misogino – corposo è l’elenco di figure che tutto sono meno che subalterne. Che siano eroine libere ai limiti del licenzioso o caste, si affermavano per essere nate per intrattenere e non per fare da cavallo di troia a taluni manifesti tanto più chiassosi quanto meno sostanziali.

Neofemminismo buonista

Gli ultimi anni sono per contro testimoni di una deriva che transmediaticamente cavalca un neofemminismo buonista di matrice puritana dagli accenti neo medievali o per converso omosex, finalizzato alla spettacolarizzazione della cultura lesbica fino allo scimmiottamento di quegli atteggiamenti vetero machisti che sono, ironia della sorte, alla base della rivoluzione patinata capitanata dal movimento #MeToo. Movimento vagamente glam che ha in figure credibili come Asia Argento e Madonna alcune delle più pasionarie sostenitrici. In realtà non si comprende bene cosa rivendichino queste attrici che hanno fatto dell’esteriorità un valore salvo poi pretendere aprioristicamente un riconoscimento intellettuale. Nella migliore delle ipotesi parlano per sentito dire, nella peggiore per avere un titolo in prima pagina cavalcano un problema serio e grave – quello della discriminazione – ma che si fa fatica a ricondurre a un ambiente esclusivo e privilegiato come quello holliwoodiano. In entrambi i casi prestano il fianco alla creazione di un clima favorevole finalizzato all’inserimento del suddetto cavallo di Troia.

Esemplare il caso di Lagertha del serial Vikings, sedotta per esigenze di share televisiva dal lato oscuro dell’erotismo in chiave saffica a cui rispondono gli autori di serial per ragazzi – tant’è che sono messi in onda il pomeriggio – come Supergirl e Arrow, con personaggi come Alex Danvers e White Canary che nel proseguo si scoprono lesbiche. Fosse solo questo sarebbe ancora giustificabile coi tempi che cambiano ma che l’operazione puzzi di manipolazione appare tanto più evidente se si osserva la messa in scena comprendente luci soffuse, musica suadente, sguardi complici e carichi di eros che le suddette si scambiano con le partners fino alla rappresentazione plastica dell’amplesso. Una deriva al tempo stesso promotrice di una monodimensionalità spersonalizzante simile alla copia carbone, di cui sono plasmate certe eroine senza storia né mistero come la Rey della versione/revisione, con sigillo Disney, delle Guerre Stellari lucasiane. Algida ai limiti del frigido, impersonale e piatta. Rey veicola il Pensiero al tempo del tweet, si dirà. Tutto ciò dà corpo ad un teorema di parte che non tiene conto o peggio, se ne strafrega delle minoranze, delle diversità etc.

Eroine di un mondo “senza confini”

In realtà questo approccio dialettico mira ad arginare un comportamento che non è azzardato definire ingannevole e proditorio. In quale altro modo è definibile l’inserimento senza filtri di temi come il femminismo e il relativismo etico che solitamente lo accompagna, forzando certi spazi d’intrattenimento? Eh già, perché quando la linea editoriale della Disney si allontana da contesti più congeniali, assume fatalmente i contorni del ciclostilato da stamperia clandestina, infarcita com’è di sottotesti che cavalcano istanze di cui non si sente una reale necessità ma che sono funzionali a quella visione di un mondo “senza confini” cavalcato a briglia sciolta per fini commerciali dalle élite mondialiste di cui la stessa Disney sembra essere parte.

Emblematica di questa deriva della casa di Topolino è la scena di End Game in cui Capitan Marvel raccoglie il guanto dell’infinito decisa a difenderlo dalle orde di Thanos. Non fa in tempo a pensare che è sola contro un intero esercito che – stacco – si trova circondata da tutte le supereroine in posa ostentatamente di sfida, col risultato che una scena che avrebbe dovuto risultare altamente drammatica suona involontariamente grottesca ai limiti della farsa. Ma tant’è. Il punto è che la Disney è ora intrappolata in un vicolo cieco in cui essa stessa s’è andata a cacciare. Se Carol Danvers si lucida le labbra con un rossetto, ecco che saettano gli strali del benpensante in servizio permanente in attivo.

Pier Luigi Manieri

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Grabar 15 Maggio 2019 - 9:39

Non è soltanto una questione di chi è il protagonista dei film, ma anche di chi sono “i cattivi”, gli antagonisti nei film di azione chi ricevono i colpi e vengono uccisi, cioè contro quante donne lottavano Capitan Marvel e le altre supereroine. Tratto da “La grande menzogna del femminismo”, pag. 358-359: «… nel film di Walt Disney La Bella e la bestia, accusato di sessismo, nessuna donna è mai colpita, neanche accidentalmente, nessuna donna subisce cadute o colpi ridicoli e buffi, al contrario dei personaggi maschili che ricevono colpi e violenze, anche accidentalmente o buffamente, là dove questi personaggi neanche lo meriterebbero. Un altro esempio lo troviamo nel film d’animazione del 2004 Gli Incredibili – Una “normale” famiglia di supereroi (The Incredibles). In questa famiglia di supereroi tutti picchiano e, teoricamente, tutti dovrebbero essere picchiati. Invece soltanto i maschi sono picchiati, da uomini e donne. Anche il bambino maschio è picchiato. Nessuna donna è picchiata. I film per adulti ripropongono lo stesso pattern. Nella mia vita non ricordo di aver mai visto un film o una serie televisiva di azione dove siano morte più donne che uomini. Al contrario ho visto molti film dove non è morta nemmeno una donna e sono morti un sacco di uomini. Quante donne uccide John Wayne nella sua lunga carriera cinematografica? Quante donne muoiono nei film di Tarzan o vengono ammazzate da John Rambo? La visione di uno di qualsiasi dei 10 film con più morti nella storia del cinema (Le crociate, 300, Troy, L’ultimo samurai, ecc.) può fornire una vaga idea di quale sia il trend. Nei western (o nei film di guerra) è un classico il protagonista o coprotagonista che finisce per sacrificare la vita, come in Butch Cassidy, Sfida all’Ok Corral, Il massacro di Fort Apache, El Alamo, I sette fantastici…» (La grande menzogna del femminismo, pp. 358-359)

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