Pistoia, 28 set – Se il linguaggio ha una sua “verità”, per dirla con lo studioso fiorentino Attilio Mordini che scavava nella storia delle parole, nel loro significato profondo, addirittura nei loro echi ancestrali, ecco che termini come “originale e “originalità” possono essere intesi in maniera differente, o addirittura opposta, da quanto, di solito, avviene. Non più, dunque, un richiamo all’innovazione, più o meno stravagante e bizzarra, con alla base un rifiuto della tradizione e di modelli precedenti, bensì un forte riferimento al passato, a ciò che è “originario”, dunque ad antiche suggestioni, ad idee e forme primordiali. Ma c’è un’ulteriore valutazione da fare: forse ciò che appare più turbinosamente “originale”, ciò che sembra attenere, magari esclusivamente, alle più moderne avanguardie, è soprattutto una sfida a quell’”accademia” che tende a imbalsamare il passato, a stringerlo e a costringerlo in una retorica stantia. Una sfida, dicevamo, e nello stesso tempo, un recupero, magari attraverso un linguaggio “scandaloso”, dell’alto e del profondo che sono le insegne della nostra memoria. Insomma, l’originalità più vera sconvolge il presente ed attinge ad eredità millenarie, rimodellate, reinterpretate, rivoluzionate.
Questo abbiamo “sentito” visitando la mostra che Pistoia, capitale della cultura 2017, ha dedicato al concittadino Marino Marini (1901-1980), scultore e pittore tra i più illustri del Novecento (“Marino Marini. Passioni visive”, a cura di Barbara Cinelli e Fabio Fergonzi, Palazzo Fabroni, fino al 7 gennaio 2018. Catalogo pp. 256, Silvana Editoriale). La rassegna ripercorre tutte le fasi della creazione artistica del maestro dagli anni venti agli anni sessanta, entrando in quella fervorosa officina in cui l’”invenzione del Novecento”- per utilizzare una felice espressione di Giampiero Mughini – si coniuga con l’attenzione verso i modelli dell’antichità egizia e di quella greco-arcaica ed etrusca, non mancando di attingere all’eredità che viene dal Medioevo, dal Rinascimento, dall’Ottocento. Dunque, le dieci sezioni della mostra, nell’intento di dare pieno conto della ricerca plastica di Marino Marini, sono tutte caratterizzate dal raffronto tra le opere dello scultore pistoiese e quelle di altri grandi del passato o di suoi contemporanei. E questa vicinanza, questo “stare accanto”, questa possibilità offerta all’occhio e allo spirito di vedere/confrontare/evocare, sono porte d’accesso a un viaggio nelle più svariate contrade. Tenendo anche conto che Marini aveva il gusto dell’avventura e della provocazione: e questo si può verificare grazie a un’altra rassegna pistoiese incentrata sulla amicizia/empatia tra l’artista toscano e il catalano Mirò (“I colori del Mediterraneo”, Palazzo del Tau, fino al 7 gennaio 2018. Catalogo pp.54. Fondazione Marino Marini). Una corrispondenza umorale fondata su una comune, calda gioia di vivere che favorisce l’affinità dei linguaggi. Magari attraverso una forma ridotta a pura, criptica essenzialità, investita com’è da un cromatismo volutamente elementare. Il che può stimolare condivisioni e avversioni altrettanto nette: le “cifre” di Marini sono meno convincenti di quelle di Mirò.
Ma torniamo alle “Passioni visive” di Palazzo Fabroni. Cosa incontriamo nel nostro viaggio? Una pluralità di immagini che sono segno tangibile di una poetica, appunto, “originale”, a partire dai busti mariniani degli esordi affiancati a canopi etruschi e a busti rinascimentali. C’è davvero tanto da ammirare. Ad esempio, il “Popolo”, una terracotta del 1929, che fu un passaggio determinante della svolta arcaista di Marini, si misura con una testa greco-arcaica di Selinunte e con un coperchio figurato di una sepoltura etrusca. Le suggestioni, per dirla con Montale, “si affoltano”. Così, la successiva ricerca di una differente monumentalità, espressa nel capolavoro ligneo dell’”Ersilia”, è messa a confronto con sculture etrusche e greco-italiche. Verso la metà degli anni trenta, Marini concentra la sua attenzione sul nudo maschile: ne derivano lavori destinati a lasciare un segno indelebile nella cultura, come evidenzia il raffronto con opere capitali del medesimo tema, frutto della sapienza plastica di altri grandi artisti come Arturo Martini e Giacomo Manzù. Mentre certe stilizzazioni, con i corpi che si allungano e sembrano trasmettere vibrazioni silenziose, consentono comparazioni con l’arte medievale: un Cristo ligneo, appartenuto al maestro, è messo accanto al suo “Icaro” e a due dei suoi “Giocolieri”. Altri nudi, stavolta femminili, sono quelli raffigurati dalle “Pomone”. Anche qui una “riscoperta”, una “riattivazione” del “tempo (non) perduto”. Come è noto, Pomona era una divinità romana protettrice dei frutti, che aveva un bosco sacro sulla strada da Roma ad Ostia e un flamine incaricato del suo culto. Marini ne fa un’insegna della fecondità, ma non solo fisica: Pomona è un corpo dai solidi tratti materni, è la femmina che ama e genera, è lo spirito della terra che, al pari del cielo, è “piena di dei”.
Di stazione in stazione, la mostra arriva al Marini del dopoguerra, quello che inventa una nuova lingua per la resa espressiva del corpo umano, guardando alla scomposizione cubista e, al tempo stesso, alla deformazione espressionista, con i corpi che sempre più si destrutturano, al pari delle idee. Il “Tramonto dell’Occidente”, preconizzato da Spengler più di trent’anni prima, arriva adesso, con un crescendo di oscurità. E allora il sogno/bisogno identitario, che in Marini è, a nostro avviso, una segreta esigenza mai sbandierata (non si consacrò mai ad una “causa”), ci riporta a quella figura che si imprime sulle stagioni della sua arte: il Cavaliere. Icona? contrassegno? emblema? correlativo oggettivo? “partitura musicale”, come suggerisce, con finezza, Flavio Fergonzi? Chi sa… Questo ed altro, comunque, è il Cavaliere. Quando si parla di Marini, quando si pensa a Marini, la mente corre prima di tutto proprio ai suoi cavalieri, qui in mostra nella loro sequenza espressiva, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. Chi sono i cavalieri? Cosa vogliono dire? Che cosa “immediatamente” ci dicono? Pensiamo all’uomo e al cavallo nella eternità del loro rapporto, al loro vincolo amicale, all’armonia che si stabilisce nel lavoro, nella guerra, in una corsa dentro il vento. Oppure nella stabilità di una “posa”.
Poi, come ricorda Marini, a contrastare tutto questo arriva la “macchina”. Il mondo della macchina “cattura” l’uomo e il cavaliere: e lo fa “in maniera drammatica, ma non meno viva e vitalizzante”. Cavalli, macchine, tigri o solo idee-forza: all’uomo la scelta del suo destriero. Negli “anni ruggenti”, però. Perché poi, nel dopoguerra, il Cavaliere – che in mostra è posto a confronto con gli antenati di riferimento, dalle civiltà del Mediterraneo e all’antica Cina – appare sempre più incapace di dominare il suo cavallo e di indicargli una strada. La macchina aveva esortato a nuove sfide, a una nuova, totale mobilitazione: ora il Cavaliere si è arreso o ha bisogno di nuove armature? Non sappiamo se Marini si sia posto questi interrogativi cruciali o li abbia dissipati in una tensione creativa a nostro avviso sempre più autoreferenziale, con ammicchi a una sfilacciata modernità che vuole artisti inermi più che in armi. Sia come sia, nudo, crudo, “essenziale” e inquietante il Cavaliere resta. E continua a parlare di avventurose cerche, finché Vita comanda.
Mario Bernardi Guardi