Roma, 9 mag – A prescindere dall’eterno dibattito pro o anti-colonialista, il contesto è come sempre preponderante, e quello che portò l’Italia alla proclamazione dell’Impero il 9 maggio 1936 non fa eccezione. Addis Abbeba era caduta il 5 maggio, e Benito Mussolini fece il solenne proclama ben noto agli storici, con cui incoronava Vittorio Emanuele III imperatore.
Imperiale più di forma che di sostanza
La proclamazione dell’Impero italiano, tanto per cominciare, fu più formale che sostanziale. Questo perché l’Italia, come tutte le potenze europee, era già un “Impero” coloniale, sebbene di dimensioni modeste, come quello tedesco e diversamente da quelli di ben maggiore entità sia francese che soprattutto britannico. Il Duce desiderava intestarsi una conquista, fatta di quell’Etiopia tanto discussa. Sbaglia chi considera l’impresa come anacronistica. Sebbene il dibattito anti-colonialista fosse piuttosto forte da qualche anno, ampliare i propri possedimenti coloniali significava, banalmente, guadagnare potere contrattuale nelle dinamiche internazionali. L’Italia – lo avremmo scoperto amaramente qualche anno dopo – era militarmente indietro alle altre grandi d’Europa, questo sia per una scelta esplicita del regime fascista, intenzionato a “formare” gli italiani del domani ben prima di armarli massicciamente, sia per il cospicuo sostegno militare alle forze di Franco nella guerra civile spagnola di quello stesso anno che, come è noto ridussero di parecchio l’arsenale a disposizione del Regno.
Rimaneva una potenza marittima di tutto rispetto, essendo la quarta flotta a livello mondiale, ma nel complesso non aveva evidentemente gli strumenti per affrontare quello che sarebbe stato il secondo conflitto mondiale. Con un dettaglio: nessuno o quasi era a conoscenza della sua debolezza militare, il che, fin quando fu possibile, venne sfruttato a vantaggio del Paese sulla scena internazionale. E con risultati tutt’altro che di modesta entità: Roma era riuscita a diventare in quel decennio una potenza politica addirittura di primo piano. Lo dimostrano agilmente sia i dialoghi di non ingerenza reciproca con la Gran Bretagna della prima metà degli anni Trenta, la formulazione – purtroppo non ratficata – del “patto a quattro” del 1933 ma soprattutto la pace di Monaco del 30 settembre 1938, con cui l’Italia stessa si dimostrava in grado di fermare la guerra in Europa e di rimandarla di un anno, quando noti eventi incontrollabili per tutti presero piede. Insomma, Roma non era potente militarmente come la concorrenza (per scelta ma anche per “scelte” di aiuti verso l’esterno che di certo non resero il quadro più solido) ma anzittutto il fatto non era noto, e in secondo luogo si osservava, nei fatti, una capitale di primo piano nella politica internazionale come probabilmente mai lo era stata nella storia unitaria. Una capitale anche motivata a resistere ai boicottaggi esterni, come quelli della Società delle Nazioni successivamente al conflitto d’Etiopia.
Un colonialismo propositivo
La proclamazione dell’Impero ha un significato molto profondo per la storia italiana. Si può senz’altro sostenere che l’approccio colonialista sia eticamente sbagliato (nel senso “sbagliato” di imporre un governo a un’altra nazione, laddove chi di altro orientamento sottolinea invece una relativa stabilità del continente africano sotto il controllo “diretto” dell’Europa: non entriamo nel dibattito perché non ci interessa in questa sede). Ma non si può contestare il fatto che il colonialismo italiano abbia creato basi importantissime di sviluppo ovunque abbia avuto modo di agire. Le presunte violenze tanto in Libia quanto in Etiopia a governo italiano ormai impostato, narrate di recente da una mostra coloniale di Torino costretta a fare marcia indietro dopo le denunce documentate dello storico Alberto Alpozzi, sono lo specchio di un racconto che evidentemente non corrisponde alla realtà.
D’altronde, se il Negus Hailè Selassiè, appena tornato in Etiopia nel 1941 dopo la sconfitta italiana del 20 gennaio, si prodigò nell’ammettere candidamente di aver lasciato un Paese in fondo “brullo” cinque anni prima e in quel momento aver visto una trasformazione fatta anche di strade e infrastrutture prima inesistenti, c’è un motivo. Lecito essere contrari al colonialismo come principio, illecito non recepire una realtà evidentemente scomoda come quella, come testimoniano le parole dello stesso Imperatore al ritorno in patria: “Sono molto dolente che le circostanze di questa guerra non consentano di fare la conoscenza personale del generale Nasi, verso il quale professo la più alta ammirazione e la più viva riconoscenza per le direttive di politica indigena, inspirata ad un largo senso di giustizia e di umanità, da lui adottate e imposte durante tutto il periodo del suo vice-governatorato generale. Le migliaia di abissini da me interrogati dopo il mio ritorno in Etiopia mi hanno fatto, senza eccezioni, unanimi commoventi grati elogi del trattamento usato dal generale Nasi verso le popolazioni native dell’impero”.
Stelio Fergola