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Riforma del campionato Primavera, un buon primo passo strozzato da un’idiozia

by Stelio Fergola
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Roma, 28 apr – La riforma del campionato Primavera decisa dalla Figc è senza dubbio un primo passo importante nel promuovere un’inversione di tendenza contro il folle “sterminio calcistico” dei calciatori italiani sul nostro territorio. Uno sterminio, o se volete un “programma di estinzione involontario” perpetrato fin dalle giovanili per poi proseguire imperterriti nelle massime serie, dove i club da decenni cercano giocatori anche all’altro capo del mondo piuttosto che in Italia.

Riforma del campionato Primavera: più italiani in campo

Combattere l’invasione straniera nelle giovanili è un modo per limitare l’estinzione calcistica dei calciatori nostrani, senza dubbio. Per la verità, una certa inversione di tendenza si era vista dopo il 2017 anche nei club di serie A: questioni numericamente minime, ma, se non altro, da menzionare. Da quell’anno, coincidente con la prima delle due mancate qualificazione ai mondiali della nazionale, i maggiori club infatti hanno “seguito” l’esempio della Juventus (unica a puntare almeno minimamente sui calciatori italiani) e hanno iniziato a comportarsi come le squadre delle altre nazioni europee dopo la sentenza Bosman del 1996, ovvero recepire (inevitabilmente) l’invasione di calciatori stranieri ma “puntare” su un numero minimo di titolari pescati in casa e da far crescere. In alcuni casi, anche grazie alle strategie del Ct Roberto Mancini che ha fortemente sponsorizzato alcuni di essi come Niccolò Barella. Dal 2020 in poi questa leggera inversione di tendenza ha subito un’ulteriore accelerazione, riscontrabile nelle formazioni titolari di squadre come Lazio, Roma, Milan e soprattutto Inter, squadra che ultimamente schiera stabilmente 5 italiani titolari in campo e quasi tutti caratterizzati da prestazioni che hanno ampiamente ripagato la fiducia (oltre a Barella, si pensi ad Alessandro Bastoni e a Federico Dimarco) diventando delle vere colonne della squadra.

Dunque è chiaro che la riforma del campionato Primavera, aggiunta a queste tendenze pur minimali, potrebbe dare una grossa mano anche perché costituirebbe un aiuto strutturale contro il declino: dall’anno prossimo sarà obbligatorio avere in lista almeno 5 calciatori convocabili in nazionale e almeno 5 “local” (ovvero intende quello che, non necessariamente italiano, a partire dal dodicesimo anno di età, è stato tesserato con il club per almeno due stagioni sportive), con l’imposizione di arrivare a 10 + 10 nelle prossime due stagioni. Resta l’amarezza per l’ennesima constatazione di dover imbastire una regola strutturale per non suicidarsi mentre altrove, tutto ciò, sia stato assolutamente naturale ed istintivo. Ma non c’è tempo per pensarci troppo adesso, ed è necessario intervenire il prima possibile, considerando anche come tutto ciò sia appena una minima parte di quello che si dovrebbe fare.

Cosa c’è che non va

Il punto debole della riforma è che rischia di perdersi in un bicchiere d’acqua per l’innalzamento dell’età dei calciatori della Primavera a 21 anni. Viviamo già in un Paese dove c’è una cautela assolutamente irrazionale sui giovani italiani e una tendenza a farli esordire il più tardi possibile con la solita scusa perpetrata in una frase simbolica: “Lasciamolo crescere con calma”, che nella maggior parte dei casi si tramuta nel non far crescere affatto. Di conseguenza, non c’era proprio bisogno di mettere una regola tanto assurda, per di più nel contesto di una riforma che potrebbe eccome essere utile a costruire un percorso virtuoso e ad allineare l’Italia agli altri Paesi che, dopo la sentenza Bosman, hanno sviluppato reazioni di cui da queste parti non si è vista neanche l’ombra.

Stelio Fergola

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