Roma, 24 gen – Quella che segue è la prima di tre parti di un contributo fondamentale del nostro collaboratore Luca Cancelliere sulla storia del Risorgimento. In questo articolo vengono decisamente e rigorosamente confutate le teorie complottiste filo-borboniche e anti-risorgimentali che, fondandosi spesso su illazioni e falsi storici, mirano a rimettere in discussione l’unità politica e morale della nostra nazione, conquistata dai patrioti italiani lungo l’arco di molti decenni con alto tributo di sangue. (IPN)
Negli ultimi 25 anni, il cosiddetto “revisionismo del Risorgimento”, con particolare riguardo alla conquista garibaldina e sabauda del Regno delle Due Sicilie, da tema relegato all’ambiente intellettuale (o presunto tale) è stato oggetto di ampio dibattito nella cultura popolare. Il dibattito pubblico sull’argomento, contrariamente a quanto si crede, risale ai primi anni dell’Unità. La questione meridionale fu dibattuta sin dagli anni ’60 del secolo XIX dalla classe politica e intellettuale del tempo e il Parlamento del Regno dedicò alla questione anche numerose commissioni d’inchiesta. Meridionalisti come Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti, Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini e Antonio Gramsci, con toni e argomenti di ben altro livello rispetto agli odierni denigratori del Risorgimento e soprattutto senza mettere in discussione il risultato storico dello Stato unitario, esaminarono gli aspetti più controversi dell’unificazione nazionale.
Il fascismo storico esaltò con ogni mezzo e in ogni ambito il Risorgimento, senza concessione alcuna alle tesi revisioniste: lo attestano la filatelia, l’odonomastica, le intitolazioni di istituzioni e beni civili e militari, i libri di testo delle scuole di ogni ordine e grado, la letteratura accademica, la cinematografia, i discorsi e i documenti ufficiali del Regime e in particolare del Duce e dei massimi gerarchi. Nel secondo dopoguerra il revisionismo del Risorgimento si affacciò in ambito accademico nel solco del meridionalismo pre-fascista e in particolare dell’insegnamento marxista di tipo gramsciano.
A livello popolare e di cultura di massa, praticamente fino agli anni ’90 del Novecento il revisionismo anti-risorgimentale, anti-sabaudo e filo-borbonico era sconosciuto nell’Italia meridionale. Una conferma viene dal fatto che nel secondo dopoguerra la Monarchia e Casa Savoia godevano di una grande popolarità nel Mezzogiorno. Nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946 tutte le 12 circoscrizioni elettorali meridionali e insulari (sulle 31 totali) garantirono alla Monarchia maggioranze molto superiori al 51%: Napoli 78,9%, Lecce 75,3%, Salerno 72,9%, Benevento 69,9%, Catania 68,2%, Bari 61,5%, Palermo 61%, Cagliari 60,9%, Catanzaro 60,3%, Potenza 59,4%, L’Aquila 53,2%, Roma 51%.
Dalla seconda metà degli anni ’40 alla fine degli anni ’60 i partiti di ispirazione monarchica (Partito Nazionale Monarchico, 1946-1959; Partito Monarchico Popolare, 1954-1959; Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica, 1959-1972) raccolsero risultati elettorali considerevoli in tutto il Mezzogiorno. Nelle elezioni politiche del 1953, il Partito Nazionale Monarchico raccolse alla Camera dei Deputati il 7,7% in Abruzzo, il 9,61% in Molise, il 21,46% nella Circoscrizione Napoli-Caserta, il 22,21% nella Circoscrizione Benevento-Avellino-Salerno, il 10,36% in Basilicata, il 16,28% nella Circoscrizione Bari-Foggia, il 14,41% nella Circoscrizione Brindisi-Lecce-Taranto, l’8,82% in Calabria, il 10,51% in Sicilia Occidentale, il 12,57% in Sicilia Orientale. Questo senza tenere conto che tutti gli altri partiti dell’epoca, dal Pci al Msi, pur con diverse sfumature, erano tutti convintamente risorgimentalisti, anche se anti-monarchici e di ispirazione repubblicana.
A partire dagli anni ’50, tuttavia, in alcuni ristretti circoli intellettuali cominciò a diffondersi un tipo del tutto nuovo di critica anti-risorgimentale, che attingeva per la prima volta alla polemica legittimista, cattolica integralista e reazionaria del secolo precedente, mettendo in discussione anche la legittimità dello Stato unitario. Si pensi ai romanzi di Carlo Alianello (L’Alfiere, scritto nel 1942 ma censurato dal regime fascista e diffusosi solo nel dopoguerra, e L’eredità della priora del 1963), che furono entrambi oggetto di una trasposizione televisiva da parte della Rai. Il maggiore contributo divulgativo anti-risorgimentale fu dato dallo scrittore marxista (già dirigente del Psiup) Nicola Zitara con il libello L’Unità d’Italia: nascita di una colonia (1971). È però solo a partire dalla fine degli anni ’90 del Novecento che si sono diffusi numerosi libelli divulgativi di scarso valore scientifico e di ancor minore obiettività, in massima parte scritti da giornalisti. A parte i famigerati libelli di Pino Aprile, si ricordino in questa sede: Maledetti Savoia (1998) e Indietro Savoia! Storia controcorrente del Risorgimento italiano (2003) di Lorenzo Del Boca; 1861. Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato (1998), I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli (2004) e Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento (2007) di Gigi Di Fiore; Risorgimento da riscrivere (2007) di Angela Pellicciari; I lager dei Savoia. Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali (1999) di Fulvio Izzo. Di seguito si esamineranno analiticamente le argomentazioni del revisionismo anti-risorgimentale con riferimento alla conquista garibaldina e sabauda del Regno delle Due Sicilie.
La politica interna e internazionale del Regno delle Due Sicilie
Dopo l’unificazione dei Regni di Napoli e Sicilia nella nuova entità statuale denominata Regno delle Due Sicilie (8 dicembre 1816), venuta meno l’autonomia dell’isola, la Costituzione siciliana del 1812 fu revocata, dando vita a un insanabile conflitto tra dinastia borbonica e classe dirigente siciliana che durò fino al 1860. L’egemonia britannica veniva confermata dal trattato del 26 settembre 1816 tra il Regno delle Due Sicilie e il Regno Unito, con il quale si concedeva a quest’ultimo lo status di «nazione più favorita». Un parziale tentativo di affrancarsi dall’egemonia britannica avvenne per il Regno delle Due Sicilie con la “guerra dello zolfo” (1838-1840), una controversia commerciale durante la quale Ferdinando II di Borbone esperì un tentativo di trasferire le concessioni per l’estrazione e l’esportazione del minerale alla francese “Taix & Aycard”. A seguito della decisa presa di posizione britannica, Ferdinando II dovette però recedere dal suo proposito.
I moti del 1820-1821 furono seguiti da più limitati, ma numerosi tentativi insurrezionali, tra i quali spiccano quelli del Cilento (1828) e della Calabria (1844 e 1847). Ma fu nel 1848 che insorsero di nuovo la Sicilia (1° gennaio) e Napoli. Il 24 febbraio 1848 Ferdinando II fu costretto a concedere la Costituzione e inviare le truppe nella pianura padana per partecipare alla guerra guidata da Carlo Alberto di Savoia contro l’Austria. Ma appena possibile Ferdinando II fece spergiuro sciogliendo la Camera appena eletta e richiamando il corpo di spedizione di 11.000 uomini guidato da Guglielmo Pepe nella valle del Po. Ferdinando II di Borbone riconquistò la Sicilia per mezzo del Generale Carlo Filangieri, sciogliendo il Parlamento di Palermo. La pagina più tragica della riconquista della Sicilia fu l’assedio e il bombardamento della città di Messina. La città fu distrutta e abbandonata alla vendetta dei vincitori, supportati anche da delinquenti comuni inviati appositamente dal Re[1]. Salvatore La Farina narra che «li Svizzeri ed i Napolitani non marciavano che preceduti dalli incendii, seguìti dalle rapine, da’ saccheggi, dalli assassinamenti, dalli stupri […]. Donne violate nelle chiese, ove speravano sicurezza, e poi trucidate, sacerdoti ammazzati sulli altari, fanciulle tagliate a pezzi, vecchi ed infermi sgozzati ne’ proprii letti, famiglie intere gittate dalle finestre o arse dentro le proprie case, i Monti di prestito saccheggiati, i vasi sacri involati»[2].
La dura repressione borbonica dell’estate del 1849 contro un governo provvisorio ormai instabile decretava la fine dell’esperienza rivoluzionaria del 1848-1849 e l’ulteriore allargamento del preesistente divario tra la classe politica siciliana e quella napoletana. Il 15 dicembre 1849 venne imposto all’isola un debito pubblico di 20 milioni di ducati e il capo della polizia borbonica in Sicilia, Salvatore Maniscalco, dovette affidarsi alla criminalità organizzata per controllare un ordine pubblico ormai difficilmente gestibile in un’isola che rifiutava categoricamente il governo borbonico. Il tracollo borbonico nella Sicilia del 1860 di fronte all’avanzata garibaldina è perfettamente comprensibile alla luce del profondo risentimento maturato nei Siciliani contro la dinastia regnante in 44 anni di storia del Regno delle Due Sicilie. (Continua).
Luca Cancelliere
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Note
[1] Cfr. C. Gemelli, Storia della siciliana rivoluzione del 1848-49, Bologna 1867.
[2] S. La Farina, Storia della rivoluzione siciliana e delle sue relazioni coi governi italiani e stranieri, Milano 1860, pp. 356-357.
5 comments
Bravo Luca! Articolo dettagliato di piacevole e appagante lettura, ispirato ad una visione onesta. però acuta visione dei fatti storici.
Una visione finalmente fascista, quindi veritiera e patriottica.
Per farla finita con ogni tipo di leghismo.
Bene.
Il mio commento sull’anticlericalismo di Garibaldi e sul suo “oblio” storico pilotato, particolarmente per la storia destinata a chi non sarà mai uno storico di professione (la maggior parte di noi), è sparito. Un caso. Che dite, aggiungo un punto interrogativo a “un caso”? Ci sono filoclericali tra i moderatori?
Mi correggo e mi scuso coi moderatori (se ci sono): il commento del quale lamentavo ingiustamente la scomparsa è dove l’ho messo — in coda alla seconda parte dell’articolo. A volte si prendono dei granchi per delle sciocchezze incorrendo, come ho fatto in questo caso, in clamorose figuracce. Portate pazienza.
Posso segnalare che, contrariamente a quanto viene comunemente affermato, la decisione di revocare la concessione del monopolio del commercio dello zolfo siciliano alla Taix e Aycard venne presa “prima” che i rapporti tra Due Sicilie e Regno Unito giungessero al conflitto aperto ? In realtà la società francese non riusciva a rispettare gli impegni assunti con il contratto stipulato nel 1838 e già agli inizi del 1840 il governo napoletano era deciso a cancellare la concessione. Furono le esitazioni di Ferdinando II a inasprire i rapporti con gli inglesi e a spingere Londra – che aveva un atteggiamento abbastanza “colonialista”, diciamolo pure – a sfiorare lo guerra aperta.