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Rivoluzionario e patriota: il destino tragico di Catilina

by Saverio Andreani
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Roma, 25 set – Sergio Catilina nacque a Roma nel 108 a.C. da un’importante famiglia romana, la gens Sergia. Il nome sembra derivare da un antenato di Catilina, Sergesto, il quale, secondo quanto riportato da Virgilio, giunse in Italia insieme a Enea. Una famiglia, dunque, seppur da tempo estromessa dalla vita politica romana, di antiche e nobili origini, direttamente collegate alla nascita stessa di Roma. Due sono gli autori romani che, principalmente, si occuperanno della figura di Catilina: Cicerone e Sallustio. Inutile dire che, nella descrizione di quello che era un temibile avversario non solo politico, la figura di Catilina ne esce dipinta con tratti foschi e, per certi versi, contrastanti, fino ad essere paragonata come degna figlia della corruzione dei costumi all’epoca in atto, corruzione di cui la congiura sarebbe stato il punto più alto e critico. Ma chi era davvero Catilina? E cosa lo spinse a tentare di prendere il potere con le armi?
Appena 19enne, lo vediamo arruolarsi nell’esercito del generale Strabone nella Guerra marsica contro le popolazioni italiche ostili a Roma e, successivamente, al fianco di Silla nella campagna in Asia minore e nella guerra civile contro i suoi nemici politici (i populares), partecipando anche attivamente alle liste di proscrizione e alle sentenze capitali. Giovane audace, di ottima educazione e di intelletto non comune, intraprende poi la carriera politica ottenendo brillantemente i primi successi: questore nel 78, legato in Macedonia nel 74, edile nel 70, pretore nel 68 e governatore dell’Africa nel 67. Manca un ultimo passo al coronamento della sua carriera: il consolato. E Catilina decide di presentare la sua candidatura di ritorno dalla propretura in Africa nel 66 a.C. Dettata da amor patrio nei confronti della Repubblica, la sua candidatura viene presentata insieme a un disegno di riforme sociali che sarebbero state, se applicate, destinate a stravolgere una Repubblica che da tempio versava in un clima di tensione sociale senza precedenti, con una separazione gravissima tra società e istituzioni e una frattura sempre più profonda tra una classe politica avida e corrotta e gli antichi valori del mos maoirum che avevano reso grande Roma. Un progetto che non poteva essere accettato da una classe aristocratica che sopravviveva arroccata a difesa dei propri privilegi. Una classe di cui Cicerone e Sallustio facevano pienamente e consapevolmente parte.
Da questo momento in poi nei confronti di Catilina vennero mosse accuse di ogni genere: dall’omicidio alla cospirazione, dalla corruzione alla violenza sessuale. Tutte accuse che non verranno mai provate (Catilina verrà assolto in tutti i processi), ma che produssero l’effetto sperato: rallentare la sua carriera politica. Come mai tanta ostilità? Il programma di Catilina era effettivamente rivoluzionario, come anticipato, e prevedeva una definitiva redistribuzione della terra, la cancellazione dei debiti, l’abrogazione delle leggi che disponevano l’arresto degli insolventi e la fine del monopolio delle magistrature da parte degli ottimati. Proposte che andavano ad attaccare nel portafoglio e negli interessi sia i cavalieri che gli optimates. Inutile dire che la levata di scudi fu unanime e per ben tre volte venne impedito a Catilina di ottenere il consolato. La prima volta venne accusato di concussione e gli venne, di conseguenza, negata la competizione elettorale. Assolto, ripresentò la candidatura nel 64 a.C., ma venne tradito dal proprio partito e dall’accordo sottobanco degli altri candidati che, votandosi tra loro, lo fecero arrivare terzo.  La terza e ultima volta, forte dell’appoggio popolare e degli agricoltori venuti dalle campagne italiche per votarlo, la vittoria, che sembrava così vicina, gli venne sottratta da Cicerone che, con uno stratagemma, riuscì a far rinviare le elezioni, ben sapendo che la maggior parte dei sostenitori di Catilina non avrebbero potuto rimanere a Roma così a lungo. Oltre a questo, da vile, il famoso oratore contribuì a diffondere ingiurie e malelingue sul rivale, paventando il pericolo di una rivolta armata, tanto da presentarsi il giorno delle votazioni avvolto da una corazza e protetto da un presidio di cavalieri: chi mai avrebbe votato per un uomo su cui aleggiava l’accusa di cospiratore?
E cospiratore, in un certo senso, Catilina decise di diventarlo proprio per questo: tre volte derubato della vittoria, ingiuriato e additato a torto come malfattore, Catilina vide nella congiura e nella rivolta armata gli unici mezzi per salvare la Res Publica dall’abisso di corruzione e immoralità in cui stava sprofondando. Un ritorno alle origini, vero, concreto e non certo quello apparente e falso, millantato da chi poi, come Cicerone, verrà addirittura proclamato pater patriae. Intorno a Catilina si raccolte un esercito, «la feccia di Roma», ebbero a dire i suoi nemici, ma di strana feccia si trattava: giovani nobili e aristocratici ma anche rurali e donne, colte e istruite, delle famiglie più nobili, una cosa impensabile nella Roma dell’epoca. La migliore gioventù romana, altro che feccia, sembrava essersi raccolta intorno a Catilina. Tradito da un congiurato, venne pubblicamente accusato in senato da Cicerone e qualche giorno dopo, avendo osato recarsi in Etruria con i fasci littori e l’insegna delle legioni romane, fu proclamato dal Senato hostis publicus, nemico pubblico. Nessuno dei suoi lo abbandonò, non un uomo, non un soldato. Sapevano che il destino era la morte e, nonostante questo, nessuno dei congiurati disertò, attendendo con coraggio le truppe inviate dal senato.
5 gennaio del 62 a.C., Campo di Zoro. È qui che si conclude la tragica avventura di Catilina e dei suoi congiurati. Condannati a morte, diedero sul campo di battaglia la prova più autentica e definitiva delle loro intenzioni: morirono tutti, senza arretrare di un solo centimetro. Nessuno aveva cercato di fuggire, nessuno aveva voltato le spalle al nemico, tremila ribelli caddero sul campo di battaglia combattendo fianco a fianco al loro comandante. Catilina fu trovato tra i cadaveri dei nemici «mentre ancora respirava, ma gli si leggeva sul volto la stessa espressione d’indomita fierezza che aveva da vivo». Qualcun altro, invece, giunta la sua ora preferì la fuga al combattimento, finendo per invocare piangendo di aver salva la vita.
Saverio Andreani

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