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A Roma Fornasetti riporta “la donna più bella del mondo” a d’Annunzio

by Simone Pellico
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Roma, 17 marzo – A Palazzo Altemps a Roma va in scena un intrigo artistico. Nel luogo dove Gabriele d’Annunzio sposò e visse con Maria Hardouin, Fornasetti espone ruffiano l’icona di un’altra donna amata – e venerata – dal Vate. E’ Lina Cavalieri, di bellezza invariata nelle variazioni artistiche di Piero Fornasetti, “la massima testimonianza di Venere in terra” come la definì d’Annunzio nella dedica de Il Piacere che le donò.
Citazioni pratiche è il titolo della mostra di Fornasetti, che invade Palazzo Altemps con i suoi oggetti e disegni. Un vivace progetto di secolarizzazione artistica che dialoga con il genius loci, con l’architettura del palazzo, i suoi vuoti e i suoi pieni, i suoi piani e le sue stanze, le sue statue, le sue stampe, le sue divinità. A Roma tutto è stratificazione e ogni strato riempie di sostanza una forma comune, come la colonna traiana dà la forma al ciclo spasmodico che la rincorre. Una torre di Babele dove si parla lo stesso dialetto. Così Palazzo Altemps è stratificato – strati di architetture, strati di storia e di storie, strati di persone e personaggi – e le citazioni pratiche qui si inseriscono, come ciliegina colorata sulla torta monumentale. Un’esposizione del tutto (im)pertinente.
Il dialogo di Fornasetti riesce nell’intento, riflette l’ambiente circostante celebrandolo, in parte in parodia, in parte in omaggio fedele. La pietra delle statue e delle colonne diventa il legno dei paraventi, dei mobili e dei tavoli, il vetro dei vasi, la carta dei disegni, la porcellana dei piatti e dei gatti, che vengono messi fra gli scavi romani nel palazzo come quelli veri di Largo Argentina. La lente ironica  con cui Fornasetti gioca con le sue citazioni gli consentirebbe di ricreare praticamente tutto il mondo, il creato. Ma rinuncia, preferisce il frammento al tutto, la pagina strappata al libro compiuto. In ogni opera un messaggio, come bottiglie lanciate nel mare a disposizione di chi vorrà aprirle e leggere. Quando il frammento si moltiplica non diventa enciclopedia ma variazione, seguendo quella “tradizione intellettuale e virtuosismo dell’immaginazione” di cui parlava Gio Ponti, che scoprì Fornasetti e con cui collaborò nel segno della decorazione.
E tra le variazioni più note c’è lei, la “donna più bella del mondo”, il soprano Lina Cavalieri. Fornasetti ne conosceva probabilmente l’immagine data dal pittore Giovanni Bodini, ma è quando la vide in foto su un vecchio giornale che ne rimase folgorato. E così recuperò quell’emblema della Belle Epoque per renderla un’icona senza data di scadenza. ”Il volto di Lina Cavalieri è un vero e proprio archetipo: la quintessenza di un’immagine di bellezza classica, come una statua greca, enigmatica come la Gioconda. Cosa mi ispira a fare più di 500 variazioni sul viso di una donna? Non lo so. Ho cominciato a farle, e non mi sono mai fermato”. Il suo viso attraversa così i decenni e gli oggetti.


Se Fornasetti non la conobbe mai di persona, d’Annunzio sì. Si frequentarono prima in Italia, poi in Francia dove la casa della diva era il crocevia per gli italiani di una qualche fama a Parigi. In quella casa vennero anche musicate alcune opere del Vate. “A Lina Cavalieri, che ha saputo comporre con arte, una insolita armonia tra la bellezza del suo corpo e la passione del suo canto. Un poeta riconoscente” le scrisse d’Annunzio. La stima sarà contraccambiata su carta anni dopo, quando nella sua biografia la Cavalieri esalterà le gesta del poeta soldato “che ha reso l’Italia degna delle più fulgide tradizioni”.
Suonano così le stanze di Palazzo Altemps con le campane delle assonanze e delle dissonanze fornasettiane. Non viene invasa però la chiesa interna di Sant’Aniceto, quella dove d’Annunzio sposò nella penombra Maria Hardouin di Gallese. Vuota è, vuota era o quasi. Davanti al prete solo gli sposini reduci dalla fuitina, qualche amico del poeta in erba e la madre di lei, donna Natalia piangente in un angolo le sue lacrime di coccodrillo. E’ lei ad aver aperto il suo salotto al giovane poeta, abruzzese in visita romana, turista mondano. E’ lei che d’Annunzio voleva sedurre, complice il suo matrimonio sbiadito e la sua sensualità manifesta. Il duca di Gallese non c’è per protesta e per complesso: il poeta borghese che attenta alla nobiltà gli ricorda troppo se stesso, che da militare ussaro dalle stalle di Palazzo Altemps era salito ai piani alti consolando la nobile vedova, sua prima moglie poi deceduta.
Tra una madre lasciva e un padre incoerente, sarà la figlia Maria a cadere. Aprirà di notte di nascosto la porta al pretendente, lo condurrà nel dedalo del palazzo fino alla sua stanza, poi fino al “peccato di maggio” da cui nascerà il matrimonio e il primogenito Mario. In quelle stanze poi i coniugi vivranno – forse che sì, forse che no – i primi tempi del matrimonio, nelle scene teatrali dove sono passati secoli di potente vita romana. Scenografie degne di Escher dove le persone si rincorrono e si replicano, entrano mentre escono o salgono mentre scendono. Da quelle stanze d’Annunzio già pensava di uscire com’era entrato, per le prime amanti coniugali. Ma almeno fuori dal palazzo. Ora invece Fornasetti porta Lina Cavalieri dentro, irrompe con le sue variazioni ossessive ed espressive nelle stanze dei Gallese. Un ultimo smacco per la povera Maria Hardouin, prima e unica moglie del Vate, ma non prima né ultima sua donna.
Gabriele d’Annunzio avrebbe quindi apprezzato la mostra di Fornasetti. Non solo per l’omaggio romantico ma anche per lo stile, l’arredamento alluvionale, il bric-à-brac di lusso, l’anima rinascimentale e surrealista di Fornasetti e la loro comune vocazione da collezionisti. Anzi, il Vate sarebbe l’abitante perfetto di questo Palazzo Altemps vittorializzato, dove ricreare i bagni blu che Gio Ponti fece per lui a Gardone o piazzare – accanto al trumeau Architettura – il mobile pontiano fatto per la sua opera omnia. Avrebbe apprezzato anche la collezione di stampe antiche – in collezione permanente a Palazzo Altemps – appartenute a Giacomo Boni, l’archeologo preferito da d’Annunzio e homo faber della Terza Roma di Mussolini. Lo definì “vate e veggente del Palatino”, e ne ottenne la sepoltura proprio sul colle dove più ha lasciato il segno del suo lavoro. “Tu forse non sai quanto io abbia amato il grande Giacomo Boni – scrive a Mussolini – e quanto egli mi amasse nella religione di Roma eterna e della sempiterna Italia”. La religione stratificata di Roma, secolarizzata artisticamente da Fornasetti a Palazzo Altemps. Fino al prossimo 6 maggio.
Simone Pellico

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