Roma, 2 mar – Austero, spartano e modesto. Ma soprattutto due volte campione del mondo. Il 2 marzo 1886 nasceva a Torino Vittorio Pozzo, pioniere del calcio italiano e commissario tecnico azzurro nelle vincenti spedizioni iridate datate 1934 e 1938. Uno dei maggiori primati calcistici del nostro pallone.
Dalla Piramide al Metodo
Famiglia biellese, spirito risorgimentale. Conclusa la formazione classica questo giovane piemontese affina lo studio delle lingue girando l’Europa. Francia, Svizzera e Inghilterra. Ma oltre ai libri c’è una sfera di cuoio: nel paese elvetico milita nel Grasshoppers, oltremanica carpisce caratteristiche e particolarità della Piramide di Cambridge. Vittorio Pozzo – che ben presto diventerà pioniere dell’arte pedatoria – fa quindi ritorno in Italia. Gioca, senza eccellere, nel Torino per poi diventarne nel 1912 il direttore tecnico. Nello stesso anno il primo (brevissimo) incarico come cittì della Nazionale alle Olimpiadi di Stoccolma. Dirigente alla Pirelli, partecipa al primo conflitto mondiale. Alpino sul Carso, incarna la leggenda del Piave. Ovvero laddove non passa lo straniero.
Saper difendere, quindi contrattaccare. Popoli diversi richiedono un calcio differente: dalla guerra al rettangolo verde, il Commendatore capisce prima di tutti che l’albionico 2-3-5 non rende giustizia ai punti di forza dei calciatori italiani. Eccoci al Metodo, retroguardia robusta e rapide ripartenze. Meno elegante ma più opportunista, il WW (o 2-3-2-3 che dir si voglia) sarà alla base dei successi azzurri ottenuti durante l’esperienza fascista.
Vittorio Pozzo, un pioniere di (grande) successo
Alla seconda fugace esperienza come guida della nostra selezione (1924, giochi olimpici di Parigi) segue la duratura collaborazione con il quotidiano La Stampa. Proprio il giornalismo, sportivo ovviamente, permette al tenente di guadagnarsi da vivere. Sì, perché quando per la terza volta viene chiamato alla guida dell’undici azzurro accetta alla sola condizione di farlo gratuitamente. Dal 1929 al 1948 è il ventennio di Pozzo: da pioniere a uomo simbolo, la sua reggenza fa rima con la declinazione femminile del nome di battesimo. Vittoria.
Alle Coppe Rimet (Italia ‘34, Francia ‘38) e all’oro olimpico – Berlino 1936 – passati alla storia, dobbiamo aggiungere un altro paio di affermazioni e un argento nella meno conosciuta Coppa Internazionale. Un Europeo ante litteram riservato alle migliori squadre del Vecchio Continente: Austria, Cecoslovacchia, Svizzera, Ungheria. Proprio una scheggia di questo trofeo, forgiato in pregiato vetro di Boemia, diventa portafortuna dell’unico allenatore salito due volte sulla cima del mondo.
La cultura del lavoro
I risultati ottenuti, ovviamente, non caddero dal cielo. Competenza, lungimiranza e una profondissima cultura del lavoro: da Pozzo in avanti il “ritiro” pre partita diventò norma non scritta del pallone italiano. Portava gli azzurri in un sobrio albergo del cuneese e, figlio della trincea, inquadrava la rosa (con Meazza e Piola in testa) davanti al vicino monumento all’alpino. Non amava l’autocelebrazione e nemmeno la retorica. Sapeva però come toccare le giuste corde dei giocatori, preparando le gare anche con aneddoti provenienti direttamente dalla linea di fuoco. Amava l’Italia, plasmò una delle squadre più forti di sempre. Nel secondo dopoguerra l’iconoclastia antifascista lo costrinse alle dimissioni. Quasi settemila giorni da commissario tecnico e novantasette panchine si spensero il 21 dicembre 1968, nel giorno più buio dell’anno. Gigante della storia sportiva, come recita l’epitaffio sulla lapide del cimitero di Ponderano – paese d’origine della famiglia – lo immaginiamo già “nel futuro, dove l’azzurro delle maglie diventa l’azzurro dei cieli”.
Marco Battistini