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Le piaghe dell’analfabetismo affettivo e digitale: cosa ci insegna il doppio suicidio di Forlì

by Cristina Gauri
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Roma, 7 nov — Una miscela di disagio e analfabetismo affettivo-digitale, resa esplosiva dal giornalismo d’assalto-accatto delle Iene (nomen omen): potrebbe riassumersi così la vicenda tragica del doppio suicidio di Forlì, dove al suicidio di un 24enne, caduto nel tranello di una relazione a distanza con un profilo inventato, si è aggiunto quello del 64enne che lo aveva ingannato per mesi e che era successivamente caduto nella gogna mediatica della trasmissione Mediaset.

Doppio suicidio di Forlì: scavare oltre la smania di colpevolizzazione

Nel vortice digitale è facile perdersi. Una verità semplice e in apparenza lineare ma che nella smania di colpevolizzazione che contraddistingue i nostri tempi viene molto spesso dimenticata. Perché non basta avere dispositivi per navigare, una connessione più o meno veloce e la consapevolezza degli aspetti più prettamente tecnici: a mancare in altri termini è spesso l’educazione emotiva a gestire i tempi, i linguaggi, i modi del nostro modo di rapportarci al mondo di pixel e bit e di relazionarci ad altri.

Fantasmi interiori

Se un senso può avere questo drammatico doppio suicidio, è proprio quello di invitarci a una riflessione che prescinda l’aspetto prettamente giudiziario e cronachistico e si diffonda invece su altri aspetti; tra questi, la fragilità emotiva, le insicurezze, la solitudine che il digitale sembrerebbe superare e spezzare e che invece in molti casi amplifica. Chiusi davanti gli schermi dei pc o degli smartphone, siamo spesso convinti di poter venire a patti coi nostri stessi fantasmi interiori. Ci si illude che la sofferenza derivante dal non riuscire ad avere una relazione nel mondo di tutti i giorni (o la paura di averne una in carne ed ossa) possa essere lenita dall’affidarsi al facile conforto di un messaggio, dell’illusione di un confronto sempre più intenso con una voce che ci sembra vicina, cara, amica e conosciuta e di cui invece non sappiamo nulla.

Il dramma di chi non si fa domande

Ci si abbandona al mare aperto e insidioso di un’intimità tecnica, arida, che ci scava dentro e che finisce per amplificare i nostri stessi demoni. Nella sua brutale franchezza e prima che venisse egli stesso travolto dalla gogna mediatica che lo avrebbe portato al suicidio, l’uomo di 64 anni aveva confessato di aver giocato, di aver scherzato e che il gesto estremo del ragazzo da lui ingannato era frutto di problemi personali di cui non poteva essere ritenuto lui responsabile. Per quanto possa suonare come un tentativo di rifuggire le proprie colpe, questa frase ha un duro nocciolo di verità e di realtà.

La solitudine dell’epoca digitale è il dramma di chi non è abituato a interrogarsi su se stesso, chi pensa che ogni distanza possa essere abbattuta con un click: non si fatica più a comprendere sé stessi o gli altri e quando poi il reale irrompe con il suo peso drammatico nella vita è destinato a frantumare le ossa del povero malcapitato. Si diceva, lo dicevano autorevoli studi, che internet e il digitale rischiano di renderci stupidi, in realtà rischiano semplicemente di esporci a un mare magnum in cui le nostre debolezze, le nostre emozioni si rendono ologrammi, le nostre vite si fanno plastica; senza alcun moralismo o senza inutili derive anti-tecnologiche, bisognerebbe però prendere consapevolezza del fatto che anche il digitale, per quanto appaia virtuale e slegato dalla realtà, ha un suo peso drammaticamente reale.

Cristina Gauri

 

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