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La «consigliera estensora»: così il linguaggio «inclusivo» invade anche le sentenze

by Asgar
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linguaggio

Una recente sentenza della Corte di cassazione è stata accolta con particolare entusiasmo. Questa volta, però, ad attrarre l’attenzione non sono stati – o, almeno, non sono stati soltanto – i princìpi di diritto enunciati, ma la circostanza che il provvedimento, per la prima volta nella storia della Suprema Corte, è stato sottoscritto dalla «consigliera estensora», che nell’epigrafe dell’atto è pure indicata come «relatrice». Un’innovazione nel linguaggio in linea con la recente tendenza seguita anche da alcuni giudici della Corte costituzionale, che introduce un approccio dal sapore fortemente simbolico per la tutela della cosiddetta identità di genere, ma che, a ben vedere, appare piuttosto una rivendicazione che non ha alcun significato giuridico e dovrebbe piuttosto suscitare perplessità.

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di novembre 2022

Il linguaggio giuridico, infatti, esige una precisione chirurgica per descrivere ciò che è rilevante per il diritto, sia nell’astratta formulazione delle disposizioni normative, sia nella loro declinazione concreta in un atto giudiziario. E così, la pretesa di declinare al femminile ogni termine può rivelarsi una complicazione inutile e pericolosa. In primo luogo, perché richiede una particolare cura nel gestire correttamente l’attribuzione del genere esatto a tutti coloro che partecipano al processo, dal giudice all’avvocato, passando per le parti, il cancelliere e l’ufficiale giudiziario.

Un linguaggio sempre più astruso

E qui le incongruenze di una simile pretesa si notano nella stessa sentenza che, pur premurandosi di precisare che il ricorso è stato discusso da un’«avvocata», poco prima definisce lo stesso soggetto ancora come «difensore». In secondo luogo, perché la confusione sarebbe maggiore ove si volesse compiere il passo immediatamente successivo, nel momento in cui il magistrato, l’avvocato, la parte o chiunque altro partecipi al processo dovesse pretendere il rispetto della propria identità e questa non dovesse corrispondere al sesso. Per emanare una sentenza corretta, infatti, il giudice sarebbe chiamato a compiere inutili e gravose indagini supplementari e un eventuale errore potrebbe poi stuzzicare la fantasia dei causidici più fantasiosi e agguerriti nella formulazione di eccezioni e questioni di nullità. Insomma, senza alcun vantaggio per le politiche di tutela della parità di genere, il solo risultato concreto sarebbe quello di rendere il linguaggio forense ancor più complesso di quanto non sia ora. Un passo indietro persino rispetto ai…

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